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L’INTERVENTO SUI DIPINTI MURALI DELLA BASILICA DI SAN FRANCESCO IN ASSISI DOPO IL SISMA DEL 26 SETTEMBRE 1997

Inserito in Basilica di S. Francesco di Assisi

Giuseppe Basile

La prima iniziativa a favore del recupero della decorazione murale della Basilica colpita dal terremoto ebbe inizio pochi minuti dopo il tragico evento.

 

La prima iniziativa a favore del recupero della decorazione murale della Basilica colpita dal terremoto ebbe inizio pochi minuti dopo il tragico evento.

Data la situazione, chiedere ai responsabili dei Vigili del Fuoco, che stavano cercando affannosamente i corpi delle vittime, di fare attenzione nel rimuovere quelle che ai loro occhi apparivano come  semplici macerie mi aveva causato allora un senso di doloroso imbarazzo che tuttora stento a rimuovere quando il ricordo va a quei terribili momenti.

Chiedendo che le ruspette depositassero ogni nuovo carico accanto a quelli precedenti in modo da formare una serie di mucchi sul prato antistante la Basilica Superiore piuttosto che ammassarli subito fuori l’ingresso, schiacciandoli man mano per poterci andare sopra con i carichi successivi, sapevo che il risultato sarebbe stato di rallentare l’operazione di sgombero e che questo sarebbe apparso inaccettabile ai parenti dei dispersi.

Ma non c’era altro modo per evitare che andasse perduta la speranza di potere recuperare qualcosa della decorazione murale in quella massa eterogenea di materiali crollati dalla volta.

Alla fine di una giornata così funesta, quando ormai i corpi martoriati delle quattro vittime erano stati recuperati e portati via, fu necessario opporsi con fermezza alla intenzione di sgomberare le “macerie” risultanti dal crollo della zona della volta all’incrocio tra la navata ed il transetto.

Si voleva impedire in tal modo di causare inevitabili danni a quella parte delle “macerie” costituita da resti della decorazione murale e, soprattutto, di evitare che venisse alterata la loro collocazione, cosa che avrebbe reso assai più difficoltoso il  tentativo di ricostituire le immagini originarie.

Contavo infatti, alla luce di mie precedenti esperienze in situazioni analoghe (soprattutto in Friuli), di potere organizzare con calma e con la preparazione necessaria l’attività di recupero dei resti della decorazione murale con una squadra di operatori specializzati che lavorassero sul posto secondo la tecnica della “quadrettatura” impiegata comunemente negli scavi archeologici.

L’operazione avrebbe richiesto certamente tempi piuttosto lunghi e pertanto avrebbe potuto essere condotta solo a patto che fosse garantita l’incolumità degli operatori. Per mettere in sicurezza un edificio terremotato è necessario puntellarlo, ma nel caso della Basilica (proprio per minimizzare il rischio dopo quello che era successo e in presenza di un’attività sismica ininterrotta) si è dovuto ricorrere ad un sistema nuovo, consistente nel costruire in condizioni di sicurezza moduli completi di ponteggio per poi posizionarli al posto ad essi assegnato.

Si era presentato allora un dilemma che sembrava senza via d’uscita: lasciare sul posto le macerie sapendo che una parte almeno sarebbe andata distrutta definitivamente per fare posto al ponteggio ovvero rimuoverle e portarle via ma con la certezza che, nel caso migliore, si sarebbe avuto a che fare con materiali rimescolati e pertanto confusi.

La soluzione effettivamente messa in opera ha consentito di salvaguardare sia l’integrità che la collocazione assunta sul pavimento da parte  dei materiali crollati dalla volta [1]

Quando questa operazione potè essere effettuata, tra il 28 dicembre del 1997 ed il 2 gennaio del 1998, erano passati 3 mesi dal giorno del terremoto, nel corso dei quali erano stati portati a termine diversi altri interventi richiesti dalla situazione d’emergenza.

INTERVENTI D’URGENZA

Il primo intervento conservativo d’urgenza, a pochi giorni dall’inizio del sisma, fu quello messo in opera allo scopo di ricostituire l’adesione tra intonaco dipinto e supporto murario in corrispondenza della Vela della Povertà, sopra l’altare della Basilica Inferiore.

Qui infatti l’intonaco risultava pericolosamente “allentato” a causa dell’impatto del materiale crollato dalla vela di S. Matteo di Cimabue (e quella contigua stellata) in seguito alle prime scosse del sisma, che aveva colpito violentemente l’estradosso della vela sottostante dopo avere sfondato il pavimento della Basilica Superiore, nonostante questo fosse stato ricostruito agli inizi degli anni ’60 sopra un massetto di cemento armato.

Altri interventi d’urgenza sulla volta della Basilica Inferiore furono messi in opera contemporaneamente per consentire – come in realtà accadde – una sollecita riapertura di quell’edificio al culto ed alla fruizione culturale.

La maggior parte di queste operazioni potè essere eseguita dopo il 14 ottobre ’97, cioè dopo la spettacolare ma rischiosissima operazione di “ingabbiatura” del timpano sinistro della Basilica Superiore. Le zone più danneggiate, infatti, erano tutte in corrispondenza o in prossimità della Cappella di S. Giovanni, sottostante a quella parte della Basilica Superiore fino ad allora  a maggior rischio di crollo.

Quanto a quest’ultima, tenuto conto del fatto che – come si è detto – ne era interdetto l’accesso a chiunque fuorchè alle squadre di soccorso dei Vigili del Fuoco, i primi interventi d’urgenza poterono essere effettuati solo servendosi di ponteggi “pensili”, cioè di ponteggi ancorati al tetto dell’edificio, ai quali si accedeva dalla “passerella” sospesa anch’essa al tetto [2].

Essi venivano giù entro i varchi delle zone di volta crollate e pertanto ci si dovette limitare ad intervenire lungo i bordi dei crolli, cercando di bloccare quelle parti dell’intonaco e della pellicola pittorica che erano in procinto di cadere.

Il grosso dell’operazione fu possibile farlo soltanto a partire dal marzo del ’98, cioè dopo che erano stati svuotati i “rinfianchi” delle volte dalla enorme quantità di materiali accumulati o depositati nel corso di 6 secoli [3], erano state ancorate le volte al tetto, in maniera provvisoria ma sicura, ed infine era stato portato a termine il montaggio dello speciale ponteggio che doveva servire nello stesso tempo da puntello per le volte e da mezzo d’accesso per raggiungere le superfici decorate della navata [4] .

In realtà solo allora ci si potè rendere pienamente conto della dimensione enorme dei danni che interessavano la superficie pittorica: dal basso, infatti, erano percepibili solo le grandi lesioni che attraversavano da una parte all’altra la muratura della volta, ma certamente non quelle che riguardavano l’intonaco dipinto (la miriade di lesioni capillari visibili soltanto a luce radente) o addirittura la sola pellicola pittorica.

Da vicino fu possibile oltretutto rilevare un tipo di danno per fortuna assai limitato per estensione ma riguardante 2 brani di pittura importantissima, i volti di Cristo e della Madonna del sommo pittore romano Jacopo Torriti nella Vela dei Grandi Intercessori. Essi apparivano interessati da un gravissimo fenomeno di non adesione della pellicola pittorica all’intonaco in conseguenza dello schiacciamento indotto dalle onde sismiche e certamente sarebbero andati perduti se non ci fosse stato un intervento di somma urgenza da parte di un gruppo di insegnanti e allievi restauratori dell’Istituto Centrale del restauro [5].

Ulteriori interventi legati all’emergenza furono quelli messi in opera per staccare i resti di decorazione murale dagli spezzoni delle vele crollate (tra cui il Cristo della Vela di S. Girolamo) e da una coppia di Santi nell’arcone adiacente alla controfacciata, tanto da consentire la ricostruzione della muratura di supporto irreparabilmente danneggiata dal sisma. Quanto al Cristo si era in procinto di ricostituire l’adesione dell’intonaco al supporto murario quando il sopraggiungere delle ultime scosse (giugno ’98) ne rese necessaria la rimozione.

INTERVENTI CONSERVATIVI

L’intervento messo in opera dall’Istituto centrale del restauro era stato programmato – secondo una prassi solita nell’attività dell’Istituto - come un “cantiere pilota” e pertanto con lo scopo (oltre che di occuparsi dei casi d’urgenza) di rilevare e documentare le condizioni della decorazione murale e di mettere a punto operativamente tecniche e materiali di intervento [6].

Nello stesso tempo venivano condotte lunghe e approfondite sperimentazioni per la messa a punto di una malta in grado di rispondere all’esigenza fondamentale di non arrecare danno o detrimento alcuno alla decorazione murale pur mantenendo la capacità di ridare consistenza strutturale alla muratura di supporto,  oltre che, ovviamente, all’intonaco dipinto.

L’intervento ebbe per oggetto soprattutto la volta della Basilica Superiore e venne articolato in 3 fasi successive, della durata complessiva di 5 mesi [7].

La prima consistette in una preventiva stuccatura di tutte le lesioni, microfratture e discontinuità dell’intonaco dipinto, la seconda nell’iniettare dal basso, a pressione naturale,la speciale malta elaborata in modo tale da non avere necessità di previa immissione di abbondanti quantità d’acqua e da potere essere impastata con poca acqua; la terza, infine, nella immissione dall’alto, dall’estradosso, di una malta di composizione analoga ma meno “liquida” e quindi con prestazioni strutturali maggiori, allo scopo di riempire tutte le discontinuità della muratura ricostituendone in tal modo l’unità strutturale [8].

Quanto alle decorazioni sulle pareti un analogo intervento di consolidamento si è reso necessario solo per parti della muratura perimetrale nella quale si erano riaperte vecchie lesioni: in particolare in corrispondenza della parete di fondo del transetto sinistro e, in misura meno rilevante, della parete di fondo del transetto destro e della parete sinistra della navata (la Predica dinanzi a Papa Onorio III ).

INTERVENTO DI RESTAURO

Con la ricostituzione della coesione dell’intonaco e dell’adesione tra intonaco, pellicola pittorica e supporto murario aveva fine la fase più strettamente conservativa dell’intervento e quindi la decorazione murale della Basilica Superiore rimasta in situ poteva considerarsi al sicuro da ulteriori rischi.

Era però convinzione di tutti, della Commissione per il restauro della Basilica come dei Frati del Sacro Convento, che l’intervento dovesse interessare anche aspetti meno vitali e urgenti ma ugualmente necessari per restituire al sacro edificio il decoro anteriore al sisma: asportando tutto ciò che poteva interferire negativamente con la lettura dell’opera e operando allo scopo di assicurarne di nuovo la più piena fruizione.

In termini tecnici si trattava di procedere alla pulitura della superficie pittorica e di ricostituire, quanto meno potenzialmente, l’unità dell’immagine intervenendo sulle lacune, cioè sulle zone rimaste prive di tessuto pittorico.

Gli interventi di pulitura hanno riguardato soprattutto i dipinti delle pareti e in particolare quelli collocati sullo zoccolo aggettante che corre lungo tutto il perimetro della Basilica Superiore, che apparivano ricoperti da uno spesso strato di polvere tenacissima stratificata formatosi in conseguenza del crollo della volta, mentre per gli altri dipinti è risultato sufficiente un intervento di semplice rimozione della polvere.

La situazione più delicata riguardava i dipinti raffiguranti le Storie Francescane, per i quali non è stato possibile impiegare le comuni tecniche di pulitura a base liquida a causa della loro estrema reattività all’umidità e si è dovuto invece operare a secco utilizzando una gomma tipo wishab.

Quanto alla restituzione del testo pittorico, 3 erano le opzioni teoricamente possibili: non trattare in nessun modo le lacune in modo che fosse immediatamente e drammaticamente percepibile l’esperienza traumatica da cui erano state interessate le pitture; “chiudere” le lacune anche ricorrendo a tecniche di reintegrazione  facilmente riconoscibili – da vicino – come intervento di restauro, privilegiando in tal modo l’aspetto estetico dell’opera; lasciare visibili le lacune ma trattandole in modo da non farle interferire negativamente con la lettura dell’immagine, riuscendo pertanto a contemperare l’esigenza estetica e quella storica.

Si è ritenuto preferibile adottare la terza opzione come più rispondente a criteri di correttezza metodologica e di rispetto per la storia dell’opera (in particolare in queste decorazioni, in occasione di precedenti interventi di restauro, dall’’800 in poi, le lacune erano state reintegrate “a neutro”).

Pertanto si è fatto ricorso al metodo dell’”abbassamento ottico” dell’intonaco impiegato per colmare le lacune di modo che non ne venisse disturbata la leggibilità delle opere pur senza ricostituire il tessuto pittorico. Sono state escluse di conseguenza tecniche di reintegrazione delle lacune sostanzialmente mimetiche, compresa quella messa a punto più di mezzo secolo fa da Cesare Brandi, fondatore e primo direttore dell’ICR, e conosciuta in tutto il mondo sotto il nome di “tratteggio”[9].

DIPINTI IN FRAMMENTI: l’arcone dei Santi e la Vela di S. Girolamo

Per le macerie portate via dalla Basilica il giorno stesso del sisma l’intervento d’urgenza poteva consistere soltanto nella protezione dalle intemperie e da eventuali tentativi di trafugare i frammenti che qua e là affioravano [10].

Esse pertanto vennero sorvegliate dai Carabinieri e protette la prima notte con teli di plastica e subito dopo con tettoie in ondolux.

I frammenti, man mano che venivano recuperati da volontari restauratori setacciando le macerie, venivano ricoverati in tende installate per l’occasione dal Servizio di Protezione Civile nello spiazzo antistante la Basilica. Al sopraggiungere dell’inverno si riuscì a trasferire le cassette con i frammenti recuperati in un ambiente del Sacro Convento, lo Stallone di Sisto IV, uno dei pochi ad essere rimasto agibile. Pur trattandosi di un locale non troppo ampio la soluzione era stata preferita ad altre più funzionali perchè consentiva di non “decontestualizzare” i frammenti.

Non fu possibile pertanto lavorare contemporaneamente su tutti i frammenti recuperati dai crolli dell’arcone adiacente alla controfacciata (i Santi Rufino, Vittorino, Benedetto, Antonio da Padova, Francesco, Chiara, Domenico e Pietro Martire) e della Vela di S. Girolamo, ma ci si dovette limitare a prendere in considerazione solo i primi.

Il metodo adottato per il riconoscimento ed il riassemblaggio dei frammenti fu quello tradizionalmente impiegato in casi del genere: dopo una prima fase in cui i frammenti vengono raggruppati in base ad analogie elementari (il colore, la forma, etc.) si procede ad una duplice verifica di corrispondenza a carattere complementare: tra frammento e zona corrispettiva della gigantografia a grandezza reale e tra frammenti la cui originaria contiguità trova conferma nel fatto che “attaccano”. 

Non si trattava di operazioni facili: sia perchè i frammenti recuperati erano ben lontani dal costituire il 100% della superficie crollata sia, e soprattutto, perchè  erano di  dimensioni minime (generalmente inferiori ad una moneta di un euro) e per di più con i bordi sfrangiati.

Ciononostante (e nonostante lo scetticismo da cui era circondato il gruppo di lavoro)[11] già nel novembre del ’97 era stato ricostituito il volto di S. Rufino ed entro il primo anniversario del sisma l’intera figura del vescovo protettore di Assisi.

Nel frattempo (luglio ’98) si era posto un problema apparentemente senza via d’uscita. Apprestandosi a ricostruire le due zone della volta crollate con materiali analoghi a quelli originali (malta di calce e mattoni) pareva naturale proporre di riutilizzare quei mattoni che avevano mantenuto brani più o meno rilevanti di decorazione dipinta, quanto meno per i due costoloni trasversali posti rispettivamente tra l’arcone con i Santi e la Vela di S. Girolamo e tra la Vela di S. Matteo e quella stellata confinante.

Il timore, tutt’altro che infondato, degli strutturisti della Commissione di restauro era che la presenza di mattoni vecchi di 7 secoli e provati dalla caduta e da tutte le peripezie successive potesse indebolire la nuova struttura. La soluzione, condivisa dai responsabili dell’intervento sull’edificio, consistette nell’assemblaggio “armato” di un certo numero di mattoni recuperati fino a farne dei monoliti. In questo modo circa un terzo dei due costoloni potè essere ricostruito impiegando materiali originali [12].

Il lavoro procedeva intanto contemporaneamente su tutti gli 8 Santi e già nella primavera dell’anno successivo il riassemblaggio era stato portato sostanzialmente a termine.

Si apriva a quel punto un interrogativo fondamentale ed una doppia prospettiva.

Se la situazione era complessivamente tale, per quantità e soprattutto per significatività dei frammenti ricollocati, da potere procedere alla restituzione potenziale delle 8 immagini di Santi allora si sarebbe potuto continuare nell’opera di conservazione e restauro fino a ricollocarli nel luogo da cui erano crollati, mentre in caso contrario ci si sarebbe dovuti limitare a conservare e musealizzare le immagini riassemblate [13].

Riconosciuta, anche in seguito a numerosi confronti pubblici con specialisti, realisticamente attuabile la prima opzione, rimaneva da risolvere un ultimo problema, quale metodo impiegare per la restituzione del testo pittorico.

Si procedette ancora una volta secondo il metodo, caro all’ICR, dell’intervento campione (o “intervento pilota”), scegliendo allo scopo la coppia di Santi più significativa sotto l’aspetto tecnico, i Santi Rufino e Vittorino.

I relativi frammenti furono ricomposti seguendo una metodologia analoga a quella impiegata prima di allora, a cominciare dai casi “storici” degli affreschi quattrocenteschi di Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta della chiesa viterbese di S. Maria della Verità e di quelli del Mantegna e compagni nella Cappella Ovetari della Chiesa degli Eremitani a Padova[14] , che del resto si ponevano come precedenti inderogabili anche, e direi soprattutto, dal punto di vista della reintegrazione delle immagini.

Tra i 2 casi però, al di là delle innegabili analogie, esistevano diversità tutt’altro che trascurabili.

Nel caso di Viterbo, per esempio, si trattava di ricostituire la decorazione di un intero ambiente, di ridotte dimensioni, unitario nel rapporto spazio reale-spazio figurativo, mentre invece nel caso degli 8 Santi (e della Vela di S. Girolamo) si era in presenza di una parte minima della decorazione complessiva della Basilica (180 mq su 5.000), in un ambiente di imponenti dimensioni (in cui pertanto sarebbe stato irrealistico puntare su una riconoscibilità dell’intervento di restauro mediante tratteggio), con una decorazione segnata in maniera macroscopica dalle tracce di precedenti restauri, a cominciare dagli altri 8 Santi dell’arcone rimasti in situ.

Ultimo, non trascurabile fattore di diversità è costituito dalla aumentata esigenza di percezione della materia originale in quanto segno inequivocabile dell’autenticità di un’opera, pertanto da alterare il meno possibile con “completamenti” dell’immagine per quanto perfettamente riconoscibili.

L’opzione di fondo, anche se in via provvisoria e sperimentale, fu pertanto quella di non reintegrare in maniera mimetica l’immagine, limitandosi a ricostituirne l’unità potenziale tramite l’abbassamento ottico delle lacune, del resto in perfetta sintonia con quanto era stato fatto precedentemente nel trattamento delle lacune delle pitture rimaste in situ.

Ricollocato prima della riapertura della Basilica restaurata il pannello – campione, si ebbe subito conferma di quanto era stato previsto: le immagini dei 2 Santi ricostituite funzionavano benissimo da vicino, ma producevano un effetto di insopportabile “sfarfallio” ora che si trovavano a 20 metri di distanza e in certe condizioni di illuminazione naturale (soprattutto la luce radente proveniente dal rosone), ovviamente ineliminabili.

La definizione del problema, dunque (e anche questo era stato previsto), doveva essere rinviata al momento in cui tutta la decorazione mancante in quella zona sarebbe stata ricostituita o, quanto meno, allorquando anche gli altri 6 Santi sarebbero stati ricollocati e di conseguenza tutta la decorazione dell’arcone ricomposta.

Solo così sarebbe stato possibile ricostituire la struttura formale della decorazione tenendo conto del rapporto intrinseco con l’architettura reale e con quella dipinta, riportando le figure dei Santi a campeggiare, per quanto possibile, all’interno delle finte bifore con fondo azzurro pur senza doverne ripristinare mimeticamente le mancanze.

I dati fondamentali di riferimento erano due: alle basi dell’arcone sul quale sono dipinte le 8 coppie di Santi stanno 2 trifore reali alle quali si rifanno, evidentemente, le bifore cosmatesche dentro le quali sono collocati i Santi; gli 8 Santi rimasti in situ, perchè dipinti sulle pareti, sono però giunti a noi in cattive condizioni, con zone completamente mancanti e altre ridotte quasi allo stato di larve – una situazione, questa, che peraltro non interessa soltanto la pittura dell’arcone ma buona parte della decorazione della Basilica Superiore (circa la metà), dai cicli di Cimabue ai registri alti della navata, alla controfacciata (peraltro confinante con l’arcone).

La conseguenza di quest’ultima constatazione è che sarebbe stato quanto meno incongruo cercare di ricostituire una pittura in modo tale da renderla almeno apparentemente integra grazie ad interventi di ricostruzione mimetica delle parti mancanti proprio laddove più distruttiva è stata l’azione del terremoto.

Si è optato pertanto per una soluzione che, pur non nascondendo le tracce di un evento così terribile, garantisse ciononostante la migliore fruibilità possibile dell’opera attenuando al massimo l’interruzione del tessuto pittorico in corrispondenza dell’architettura dipinta e del fondo azzurro e limitandosi ad attutire il disturbo visivo che avrebbero recato le lacune all’interno delle figure dei Santi se il loro intonaco non fosse stato otticamente “abbassato” ad acquerello fino a risultare retrocesse rispetto all’emergere delle zone originali delle immagini ricostituite.

Ciò ha consentito di restituire all’opera la sua struttura formale originaria, ricostituendo il rapporto spaziale tra figura, architettura e fondo e quindi ristabilendo l’iniziale continuità sia con gli altri Santi dell’arcone che con le trifore reali.

La ricollocazione degli 8 Santi restaurati è stata effettuata entro il 26 settembre 2001, dopo molteplici discussioni specialistiche culminate nel Convegno internazionale svoltosi ad Assisi nel marzo dello stesso anno (La realtà dell’Utopia); l’anno successivo è stata ricollocata la decorazione della Vela di S. Girolamo e del costolone, ispirandosi, ovviamente, agli stessi criteri [15] .

DIPINTI IN FRAMMENTI: la Vela di S. Matteo e la vela stellata

Quanto alla Vela di S. Matteo, dopo la selezione dei frammenti dalle macerie nel cortile adiacente il laboratorio era stata effettuata l’acquisizione digitale delle 880 cassette in cui sono alloggiati i 120.000 frammenti, con conseguente costituzione di un “archivio virtuale” corrispondente al magazzino dei frammenti reali, come momento propedeutico di un progetto di riassemblaggio informatizzato,  che ha visto impegnati a collaborare con l’ICR prima l’Università La Sapienza di Roma (Dipartimento di Ingegneria – INFOCOM) e poi il CNR di Bari (ISSIA - Istituto di Studi sui Sistemi Intelligenti per l’Automazione).

I primi sviluppi del progetto avevano consentito di istituire un sistema di corrispondenza automatica tra frammento reale e frammento virtuale e di pervenire (agendo sui frammenti di una copia a fresco a grandezza reale della testa del Santo) alla delimitazione di aree di maggiore possibilità per la ricollocazione dei frammenti.

Ulteriori sviluppi avevano reso possibile (agendo su una copia dell’intera figura del Santo) l’esatta collocazione di quasi tutti i frammenti, mentre l’esperimento finale, avente ad oggetto il riassemblaggio “assistito da computer” delle immagini digitali dei frammenti reali della Vela di Cimabue, non aveva dato – sotto il profilo meramente operativo – risultati positivi.

Vennero allora indetti due seminari specialistici internazionali per definire il modo più opportuno di procedere: ricomporre, restaurare e ricollocare i frammenti, ovvero lasciarli nelle cassette ovvero, infine, ricomporli ed esporli in museo (auspicabilmente nel costituendo museo-archivio degli interventi post sismici presso il Sacro Convento) [16]. Un discorso diverso andava fatto invece per la vela contigua a quella di S. Matteo, quanto meno per la zona centrale raffigurante un cielo stellato, quasi completamente rifatta nel corso di interventi pregressi [17].

L’opzione era stata pertanto quella di non procedere per analogia con le altre unità figurative in frammenti (gli 8 Santi, la vela di S. Girolamo e quella di S. Matteo, i 2 costoloni trasversali) identificando e riassemblando i relativi frammenti, ma di tentare di attenuare il vuoto costituito dalla assenza di decorazione mediante l’abbassamento ottico-cromatico dell’intonaco.

La contiguità di un’altra situazione di vuoto quasi completo, costituita dalla Vela di S. Matteo, ha comportato del resto il ricorso ad una accentuazione del valore cromatico dell’intonaco proprio ad evitare che l’intonaco soltanto “abbassato” risucchiasse piuttosto che sostenere la Vela di Cimabue.

Quanto a quest’ultima, il progetto di riassemblaggio con l’ausilio del computer, sul cui funzionamento si era fatto grande affidamento, data la difficoltà di ricomporre 120.000 frammenti più minuti, smozzicati e deteriorati degli altri, ha dato risultati positivi sotto l’aspetto metodologico ma – come si è detto - di scarso aiuto ai fini pratici a causa di ostacoli di natura ingegneristica (l’impossibilità di disporre di un megavideo esteso quanto la vela, cioè circa 35 mq, la difficoltà di disporre di una memoria di dimensioni adeguate, etc). Di conseguenza anche per il riassemblaggio dei frammenti della vela di S. Matteo sono stati utilizzati, sostanzialmente, i metodi tradizionali messi a punto da Cesare Brandi 60 anni fa e già impiegati per gli 8 Santi, la vela di S. Girolamo ed il costolone trasversale.

I frammenti sono stati pertanto riassemblati servendosi di gigantografie a grandezza reale e poi applicati su supporti mobili, mentre i vuoti tra di essi sono stati riempiti con stucco. Si è poi proceduto alla restituzione (per quanto possibile, tenuto conto che i frammenti riposizionati costituiscono circa il 20 - 25% della superficie totale) del testo originale mediante abbassamento ottico dell’intonaco, per potere poi ricollocare i dipinti così restaurati sulla volta della Basilica.

Data l’impossibilità di ricostituire anche solo parzialmente l’unità potenziale dell’opera e d’altra parte l’esigenza di ridare comunque funzionalità ai frammenti identificati e ricollocati la situazione che si è venuta a creare può essere paragonata per certi versi alla condizione descritta da Brandi di un rudere che riacquista funzionalità formale (e va pertanto restaurato) se riferito ad un contesto figurativo dalla struttura formale ancora funzionante.

In conclusione sono stati restaurati circa 5.000 mq di dipinti murali in situ, recuperati circa 300.000 frammenti, ricomposti, restaurati e ricollocati circa 200.000, messo a punto un soft informatico per il riassemblaggio dei frammenti: il tutto, per una durata di circa 8 anni, è costato circa 160.000 ore di lavoro di specialisti di differente professionalità (storici dell’arte, restauratori, informatici, grafici, fotografi, etc.) per complessivi 6,5 milioni di euro.



[1] Su un telo di plastica trasparente, delle dimensioni del sito del materiale crollato, è stata segnata una griglia rettangolare numerata progressivamente, in cui ogni elemento corrispondeva alle dimensioni di una cassetta da raccolta (ovviamente le cassette con lo stesso numero  potevano essere più di una, distinte mediante le lettere dell’alfabeto, a seconda  che le macerie erano in quella zona più o meno alte).

I 20 Vigili del Fuoco impiegati nell’operazione erano stati istruiti fuori campo su come operare nel recupero e poi diretti nel corso dell’intervento in Basilica  (soprattutto allo scopo di scartare immediatamente materiali estranei, il cui recupero avrebbe prolungato inutilmente l’esposizione al pericolo) dallo scrivente e dal restauratore ICR Eugenio Mancinelli, che avevano dovuto, da parte loro, firmare uno scarico di responsabilità nei confronti dei VVF in caso di  incidente di qualsiasi tipo.

[2] Servendosi del ponteggio montato per restaurare la facciata (l’inaugurazione sarebbe dovuta avvenire nella imminente festività del Santo) e sfruttando la presenza – sopra il rosone - di un enorme oculo protetto da vetro, lasciato socchiuso per l’aerazione del sottotetto.

[3] Dai saggi stratigrafici allora effettuati risultò che lo strato più antico, piuttosto sottile, risaliva al XV secolo. Il grosso del materiale però risale alla fine dell’’800, quando il monumento fu sottoposto a radicali interventi conservativi.

[4] La funzione prevalente era quella di puntellare e per questo motivo in un primo tempo il ponteggio fu limitato alla navata, decisamente più a rischio della zona  transetto – abside se non altro per la presenza dei due grandi squarci. 

[5] Erano stati gli stessi allievi a sollecitare una partecipazione al cantiere per acquisire un’esperienza di lavoro per fortuna non comune. Il cantiere didattico dovette però interrompersi dopo pochi giorni a causa della ripresa, in forma preoccupante, dell’attività sismica

[6] L’operazione serve anche a calcolare con cognizione di causa, e quindi con il massimo dell’approssimazione possibile,  tempi e costi dell’intervento su tutta la superficie

[7] Da giugno ad ottobre ’98, con impiego contemporaneo di circa 200 operatori, la maggior parte dei quali muratori ma guidati dai  restauratori chiamati ad intervenire sui dipinti murali.

[8] La messa a punto della malta ha richiesto 3 mesi di intensissima attività sperimentale, mettendo a confronto varie ditte produttrici e valutando i risultati presso diversi laboratori scientifici. E’ appena il caso di ricordare che presso il cantiere sono state effettuate parecchie altre indagini e ricerche scientifiche (oltre che storiche)

[9] Si tratta di una tecnica inventata subito dopo la 2° Guerra Mondiale proprio per rispondere in modo adeguato al problema di come reintegrare un dipinto in frammenti, nel caso in questione la decorazione murale della Cappella Mazzatosta e della Cappella Ovetari. Si tratta di una serie di tratti sottili, paralleli, verticali, variamente colorati che ricostituiscono il tessuto pittorico mancante ma sono facilmente distinguibili, da vicino, come intervento di restauro a causa del carattere astratto del segno e della tecnica impiegata (ad acquerello)

[10] L’unico caso fu quello di 2 neo  sposi brasiliani in luna di miele in Italia che portarono con sè nel loro Paese un frammento di affresco come ricordo della tragedia cui avevano assistito, salvo a restituirlo alla nostra Ambasciata dopo avere appreso dai mass media che si lavorava in direzione della ricostituzione delle immagini

[11] Al punto che un ben noto restauratore, Bruno Zanardi,  ebbe a dichiarare sul Giornale dell’arte che non c’era nessuna speranza di recuperare alcunchè, se non “polvere colorata”. Di conseguenza il massimo della comprensione era rappresentato da chi ammetteva l’opportunità di recuperare i frammenti ma solo per immagazzinarli.

[12] Stabilito un modulo di 30 cm di lunghezza, i frammenti dei mattoni vennero incollati tra di loro con resine epossidiche, i vuoti vennero colmati con mattoni nuovi (gli stessi utilizzati per la ricostruzione delle due zone crollate della volta) e, a riempire gli interstizi, venne colata la stessa malta impiegata per il consolidamento della volta; in più vennero inserite barre di kevlar in modo da “armare” il tutto. Cfr. Il cantiere dell’Utopia (pp. 21-27), allegato al Quaderno n.4  (settembre ’98) su La Basilica di S. Francesco in Assisi e la Guida al recupero, ricomposizione e restauro di dipinti murali in frammenti. L’esperienza della Basilica di San Francesco in Assisi, Roma, 2001, 70-73.

[13] Come è accaduto, per citare due esempi di esperienza diretta, con i frammenti di scavo del vestibolo del refettorio dell’Abbazia di S. Vincenzo al Volturno, raffiguranti alcuni Profeti, e con i frammenti rinvenuti inopinatamente in un sarcofago romano nel corso di scavi archeologici sotto la sacrestia di S. Susanna a Roma (ne sono venuti fuori una Madonna con Bambino e due sante, esemplificata sulla Madonna della Clemenza di S. Maria in Trastevere, e un frontone con l’Agnello tra i due Giovanni, il Battista e l’Evangelista). Sia gli uni che gli altri sono stati ricomposti, messi su supporto, restaurati ed esposti rispettivamente nel Museo di Venafro (in attesa di essere trasferiti nel museo abbaziale) e nella sacrestia della chiesa romana. In casi del genere, ovviamente, non è possibile fare di più perchè manca il supporto murario originario. Un caso emblematico di come invece sia necessario fermarsi perchè in caso contrario si sconfinerebbe nel falso è rappresentato dalla Cappella Ovetari: furono ricostituiti, a livello sperimentale, due soli pannelli e furono appesi al muro della Cappella come in un museo.

[14] Cfr. Mostra dei frammenti ricostruiti di Lorenzo da Viterbo, Catalogo a cura di C. Brandi, Roma, Istituto centrale del restauro, maggio 1946 e C. Brandi, Mantegna ricostituito, in L’Immagine, 3, luglio-agosto 1947, 179-80.

[15] In questo caso gli elementi di riferimento erano costituiti dall’architettura, che dà fondamento spaziale alla scena, dal fondo in origine dorato e ora, caduta la doratura, del colore giallo scuro della “preparazione”, che “chiude” la scena, e dalle fasce policrome perimetrali che delimitano un modulo che si ripete in tutte e 4 le vele con i Dottori della Chiesa.

[16] Se la proposta avanzata dallo scrivente nel corso del già citato convegno del marzo 2001 e accolta all’unanimità dagli specialisti presenti tanto da farne oggetto di raccomandazione finale troverà il necessario sostegno finanziario. Si tratterebbe, ovviamente, di un museo costituito di oggetti fisici (i reperti di varia natura recuperati dalle macerie, le controforme per i supporti dei dipinti ricollocati, le gigantografie, il modello in scala della vela di Cimabue, etc.), già schedati, di una banca dati sulle operazioni effettuate e sulla storia conservativa pregressa, in corso di costituzione, e, eventualmente, di quelle parti di dipinti murali crollati e recuperati che non si è riusciti a ricollocare.

[17] Al problema della vela stellata era dedicata la tavola rotonda (Ancora sulla autenticità: il caso della vela stellata) a chiusura del Convegno internazionale svoltosi ad Assisi dal 26 al 28 settembre 2002 (La realtà dell’Utopia, ancora).

L’opinione prevalente era stata che non si potesse considerare il caso alla stessa stregua dell’arcone dei Santi e della Vela di S. Girolamo, e non  perchè si tratta di rappresentazione sostanzialmente aniconica (con tutte le difficoltà che ciò comporta a livello operativo, come già sperimentato nell’attività finora svolta in presenza di zone monocrome) ma perchè è giunta a noi quasi completamente rifatta e quindi sostanzialmente “falsa” (senza ignorare o trascurare un elemento quale  l’economicità complessiva dell’operazione, ovviamente non in senso puramente monetario e fermo restando che la decisione in senso negativo non avrebbe pregiudicato nulla perchè l’operazione avrebbe potuto essere ripresa in qualsiasi momento (come è avvenuto con i frammenti della Cappella Ovetari non ricomposti dall’ICR nel ’47 e recentemente ripresi in considerazione dai responsabili per un tentativo di ricomposizione con il supporto del computer.  Tentativo, per la verità, andato incontro ad un insuccesso: ma questo è un altro discorso). 

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