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La restituzione del testo pittorico nel ciclo di Giotto alla cappella Scrovegni e nei dipinti murali della Basilica Superiore di San Francesco in Assisi

Inserito in Basilica di S. Francesco di Assisi

Scopo di questo intervento è di riconfermare, alla luce dei  recentissimi interventi sui complessi pittorici della Cappella Scrovegni e della Basilica Superiore di S. Francesco in Assisi, vicini per epoca e autori ma assai diversi quanto a stato di conservazione, la attualità e funzionalità della concezione brandiana, purchè non si faccia l’errore di ridurre quella che è una impostazione metodologica generale in soluzioni tecniche più o meno avvedute ma non ancorate al nocciolo centrale del problema, che consiste nella capacità di restituzione anche solo potenziale del testo pittorico prima ancora di ricorrere ad una qualsiasi tecnica di reintegrazione delle lacune.

Scopo di questo intervento è di riconfermare, alla luce dei  recentissimi interventi sui complessi pittorici della Cappella Scrovegni e della Basilica Superiore di S. Francesco in Assisi, vicini per epoca e autori ma assai diversi quanto a stato di conservazione, la attualità e funzionalità della concezione brandiana, purchè non si faccia l’errore di ridurre quella che è una impostazione metodologica generale in soluzioni tecniche più o meno avvedute ma non ancorate al nocciolo centrale del problema, che consiste nella capacità di restituzione anche solo potenziale del testo pittorico prima ancora di ricorrere ad una qualsiasi tecnica di reintegrazione delle lacune.                

Il problema della restituzione del testo pittorico nel ciclo giottesco della Cappella Scrovegni non lo si era mai posto specificamente – nei 20 anni di attività conoscitive, sperimentali e di controllo propedeutiche all’intervento diretto sui dipinti murali - perché assai più urgente e vitale appariva (ed in realtà era) l’esigenza di trovare adeguati rimedi all’accellerazione del naturale degrado del manufatto rimuovendone le cause per poi cercare di intervenire sugli effetti negativi che avevano già lasciato su di esso tracce macroscopiche.                

Per la verità, in occasione dell’intervento campione sulla Missione dell’Annuncio a Maria  (1994) era parso opportuno e interessante (anche ai fini di una valutazione di massima del tempo occorrente per l’operazione) procedere ad un trattamento delle lacune diverso da quello esistente, ma ci si era limitati di fatto a sostituire alle reintegrazioni  ”a neutro” operate da Leonetto Tintori (1961 – 63) reintegrazioni con intonaco in vista, ma sottosquadro e adeguatamente “abbassato” sotto l’aspetto cromatico.

Si trattava pertanto di una mera “prova tecnica”, a carattere dichiaratamente provvisorio e “sperimentale”, che però è risultata non del tutto  adeguata anche solo al fine di dare migliore leggibilità alla scena, e nonostante si tenesse conto del fatto che la situazione veniva allora peggiorata dal tipo di illuminazione impiegata, troppo intensa, fredda e per di più di tipo radente.

Per restituire criticamente il testo giottesco bisognava invece prendere in considerazione l’intera decorazione della navata della Cappella, soprattutto alla luce della constatazione incontestabile ( e di fatto, che io sappia, mai contestata) riguardo alla solidissima unità della struttura formale dell’opera a prescindere dai suoi rapporti con l’edificio (che pure ci sono e d’altra parte non potrebbero non esserci).

Anzi, con ogni verosimiglianza, saranno stati proprio i limiti imposti dalla forma fisica dell’edificio a rendere meno immediatamente percepibile lo sforzo fatto da Giotto per realizzare l’intento di organizzare in maniera del tutto nuova e rivoluzionaria lo spazio pittorico che si accingeva a creare, “sovrapponendo” per così dire un edificio dipinto a quello reale.

Si tratta (com’è noto e a prescindere dalla fitta gamma di riferimenti e significati man mano rilevati dagli studiosi) di una sorta di “arca” con copertura a volta a tutto sesto, le cui pareti, al di sopra del  basamento solido e impenetrabile costituito da specchiature di marmi “veri” e dai rilievi, anch’essi marmorei, con le allegorie dei Vizi e delle Virtù, appaiono “forate” da una serie omogenea di aperture di là dalle quali sono collocate le scene (vere e proprie Sacre Rappresentazioni) che narrano il percorso della Salvazione, dalle storie di Gioacchino e Anna alla Pentecoste, e rappresentano inoltre episodi e personaggi delle Sacre Scritture che a vario titolo con quelle scene hanno a che fare (si tratta di aperture quadrate nel caso delle “storie”, mistilinee negli altri).

Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non si sottraggono sostanzialmente a questa configurazione nè la volta nè la controfacciata con il Giudizio Universale. 

Nella volta, infatti, 2 enormi aperture, anch’esse quadrate, consentono di vedere di là da esse il cielo punteggiato da stelle disposte simmetricamente attorno a dieci “pianeti” (i tondi dorati con Cristo, la Vergine, il Battista e 7 profeti), lasciando alle 3 “paraste” della muratura residua (anch’esse traforate da aperture mistilinee dietro le quali Giotto ha disposto tanti “mezzi busti” con personaggi dell’Antico Testamento) il compito di collegare le analoghe membrature architettoniche delle due pareti laterali (in corrispondenza di quella destra la presenza delle finestre costringe il pittore ad interrompere la “parasta” centrale all’altezza del primo registro, così come accade per tutte le altre, resecate in corrispondenza della volta, eccetto le due contigue alle pareti corte ).

Quanto al Giudizio , la rappresentazione di quel momento irrevocabile in cui avviene il trapasso dalla storia e quindi dal tempo e dallo spazio ai loro opposti non ne consente il frazionamento narrativo ma al contrario richiede la contemporanea presenza di quanto serve a visualizzarlo: il Cristo tra gli Apostoli, accompagnato dalle schiere angeliche, che giudica e separa i salvati dai dannati, gli angeli che arrotolano il cielo mettendo in vista le porte e le mura della Gerusalemme Celeste e infine Enrico Scrovegni ritratto in ginocchio dalla parte dei santi e dei beati nell’atto di donare il modello della Cappella alla Vergine Annunziata, qui piuttosto nella sua funzione di Santa Maria della Carità. 

E però anche il Giudizio è visto come attraverso un gigantesco “oblò”, delimitato in basso dal terreno roccioso e accidentato da cui risorgono i giusti o in cui vengono  sprofondati definitivamente i reprobi e per il resto da due pilastri laterali simmetrici collegati tra di loro, seguendo la conformazione dell’edificio, da una membratura architettonica curva decorata.

Ma un altro elemento importantissimo e non a caso onnipresente (a parte l’ovvia eccezione del basamento, che non ha aperture nè potrebbe averne, dovendo sostenere l’immenso edificio) è l’azzurro, una sorta di involucro che tutto ingloba costituendo  nello stesso tempo piano di definizione spaziale (con funzione di chiusura della “scatola spaziale” già sostanzialmente “prospettica” in cui, come si è detto, viene collocata ogni singola scena) ed elemento di continuità.

Ai fini di una restituzione almeno potenziale del testo giottesco si è  ritenuto pertanto necessario ricostituire innanzitutto l’unità di questi due aspetti portanti della struttura della rappresentazione pittorica, e cioè l’architettura dipinta e l’involucro azzurro.

In occasione dei due principali restauri pregressi, di cui siamo a conoscenza, quello di Guglielmo Botti e di Antonio Bertolli a fine Ottocento e quello di Tintori agli inizi degli Anni ‘60 del secolo scorso, il problema della ricostituzione del testo pittorico non era stato preso in considerazione e ci si era limitati, sia nell’uno che nell’altro caso, a trattare “a neutro” tutte le lacune senza distinzione di ruolo o di funzione. Una posizione questa che, sia detto per inciso, se può ritenersi accettabile a fine Ottocento quando non esisteva altra alternativa se non quella del rifacimento o ripristino delle parti mancanti (giustamente vietata, già fin dal 1879, dalla “circolare” ministeriale di Giovanni Battista  Cavalcaselle) , non parrebbe più esserlo al momento del  restauro Tintori perchè la metodologia di reintegrazione delle lacune messa a punto da Brandi aveva ormai ampiamente superato la fase pioneristica e sperimentale).

Non sarà forse da escludere che questo atteggiamento abbia potuto essere, magari incosciamente, incoraggiato da una considerazione culturalmente distorta e tuttavia ancora oggi (temo) diffusa, che percepisce il ciclo giottesco come una serie di episodi narrativi accompagnati da “cornici “ poco più che esornative (come dimostra il fatto che a tutt’oggi essi vengono riprodotti privi delle “cornici”): sta di fatto che anche nel restauro Tintori ogni “riquadro”, piccolo o grande che fosse, aveva ricevuto un trattamento autonomo.

Più in particolare è parso rispondere meglio alle esigenze della struttura architettonica dipinta l’impiego della tecnica del “tratteggio” perché in grado di ricostruire il tessuto pittorico perduto pur distinguendosi in modo inequivocabile dall’originale e pertanto ovviando al rischio di creare un falso: una architettura non integra si presenta  infatti come una contraddizione in termini, dato che un edificio deve poter “reggere” qualcosa e quanto meno se stesso.

In tutti gli altri casi invece è parso preferibile ricorrere alla tecnica, sostanzialmente analoga e complementare, dell’”abbassamento ottico-cromatico” delle lacune, consistente – come è noto - nel farle “arretrare” verso il fondo (tanto da poterne essere talora assorbite) in modo tale che esse non possano fare più aggio sull’immagine dipinta circostante, cosa che accade invece quando “vengono in avanti” perchè  troppo chiare (soprattutto nel caso dell’intonaco e sempre che questo non sia caratterizzato da una massiccia percentuale di inerti scuri) . 

Questa tecnica è stata impiegata diffusamente, e anzitutto per le lacune nel fondo azzurro: dato che questo colore occupa un buon terzo di tutta la superficie dipinta ed è giunto fino a noi in condizioni estremamente differenziate a seconda delle zone prese in considerazione, il suo trattamento costituisce la pietra di paragone per la riuscita dell’intervento di ricostituzione dell’”unità potenziale” dell’immagine.

Questa direzione non è stata seguita soltanto in 2 casi: nella lacuna sulla parte alta destra dell’arco trionfale, reintegrata nel corso del restauro ottocentesco, e in quella che interessa la Vergine Annunziata, trattata anch’essa “a neutro” da Tintori.

Nel primo caso il restauratore si era limitato a ripristinare le linee essenziali della decorazione cosmatesca ed è parso di conseguenza opportuno non rimuoverla limitandosi a renderla cromaticamente meno dissonante dalla pittura circostante; nel caso dell’Annunziata si è proceduto alla reintegrazione a tratteggio dopo averne verificato sperimentalmente (mediante ricorso ad una sagoma della lacuna in cartone) la ricostruibilità senza forzature ed in considerazione del fatto che la figura era per il resto abbastanza ben conservata e che d’altra parte la reintegrazione con la tecnica dell’abbassamento avrebbe comunque compromesso la bellezza dell’immagine.

Alla restituzione del testo pittorico, com’è noto, contribuisce anche, e spesso in modo  determinante, il recupero, per quanto possibile, della forma  e dell’aspetto cromatico originari nei loro valori più specifici.

La pulitura, asportando prodotti di degrado che alteravano radicalmente l’aspetto dell’opera, ha consentito un buon recupero di leggibilità per quel 30% della decorazione murale che ne era interessato. Inoltre, in conseguenza della rimozione dei prodotti impiegati nei restauri pregressi per “fissare”, ravvivare e “patinare” la superficie pittorica, che avevano finito per ottunderne la qualità cromatica ben oltre il naturale processo di degrado dei materiali costitutivi, è stato possibile riscoprire un aspetto trascurato o comunque sottovalutato dell’opera di Giotto, che si “rivela” ora come un colorista che non ha nulla da invidiare ai contemporanei senesi (ammesso che si possa ancora indulgere a queste contrapposizioni di comodo) nè, forse, ad altri grandi coloristi posteriori.

Un esempio di come possa influire sulla ricostituzione dell’aspetto più autentico dell’opera  il recupero della originaria (per quanto naturalmente degradata) cromia è costituito dal basamento, patinato “a monocromo” presumibilmente in occasione del restauro Bertolli, non è facile dire se per un errore di interpretazione che ha finito con l’accomunare le specchiature marmoree policrome ai rilievi delle figure allegoriche di Vizi e Virtù (per la verità neppure esse tutte prive di particolari coloristici) o non piuttosto per una malintesa (ma a quei tempi ancora molto diffusa) esigenza di attenuare le dissonanze quale segno di rispetto per l’opera o forse meglio per i due motivi sommati insieme. Qui il recupero è stato più eclatante che altrove perchè la tecnica del “marmorino” impiegata da Giotto ha consentito ai finti marmi di giungere fino a noi in condizioni di eccellente resa cromatica: abbastanza vicini a come l’artista li aveva pensati e cioè in funzione di contrappunto altamente sonoro alle immagini dipinte nei registri soprastanti. 

Nei casi in cui il tessuto pittorico si trovava in condizioni di degrado tale da essere divenuto scarsamente leggibile (in particolare la zona sinistra della Missione dell’Annuncio a Maria con la parte di volta contigua; la zona sinistra mediobassa del Giudizio; i 2 riquadri con Gesù tra i Dottori e la Salita al Calvario, tanto degradati da dovere essere “staccati” già a fine ‘800 dal Bertolli) non è stato possibile, ovviamente, utilizzare nessuna delle due tecniche di reintegrazione prima citate e pertanto il miglioramento nella leggibilità, dove c’è stato,  è dipeso unicamente dal fatto che le residue parti originali meglio conservate hanno riacquistato, dopo la pulitura, gran parte della loro originaria carica cromatica.

Quanto alla restituzione del testo pittorico nella Basilica Superiore di San Francesco in Assisi è opportuno distinguere la situazione delle pitture rimaste in situ dalla situazione di quelle parti della decorazione pittorica della volta crollate in seguito al sisma e ridotte in frammenti: non perché siano state seguite “logiche” diverse, ma per maggiore chiarezza di chi legge.

Nel caso delle decorazioni pittoriche non crollate le opzioni possibili erano teoricamente tre: non trattare in nessun modo le lacune in modo che fosse immediatamente e drammaticamente percepibile l’esperienza traumatica da cui erano state interessate le pitture (una opzione ripetutamente proposta soprattutto da colleghi stranieri); “chiudere” le lacune anche ricorrendo a tecniche di reintegrazione  facilmente riconoscibili – da vicino – come intervento di restauro, privilegiando in tal modo l’aspetto estetico dell’opera; lasciare visibili le lacune ma trattandole in modo da non farle interferire negativamente con la lettura dell’immagine, riuscendo pertanto a contemperare l’esigenza estetica e quella storica.

Si è ritenuto preferibile adottare la terza opzione come più rispondente a criteri di correttezza metodologica e di rispetto per la storia dell’opera : va sottolineato infatti che in queste decorazioni, in occasione di precedenti interventi di restauro, dall’’800 in poi, proprio in ossequio alle norme ministeriali prima citate, le lacune erano state reintegrate “a neutro”, quindi senza tentare in alcun modo la ricostruzione fisica dell’immagine.

Pertanto si è fatto ricorso al metodo dell’”abbassamento ottico” dell’intonaco impiegato per colmare le lacune, di modo che non venisse disturbata la leggibilità delle opere pur senza doverne ricostituire il tessuto pittorico. E’ noto a tutti che questo metodo, anche se  differisce profondamente (negli intenti e nei risultati) da quello della reintegrazione “a neutro” , gli somiglia abbastanza nel rifiuto della “tentazione” mimetica – e del resto (e per fortuna) le lacune nei dipinti rimasti in loco non avevano una rilevanza tale (né per estensione, né per forma, né per collocazione) da dovere rimettere in discussione le scelte fatte in occasione dei più recenti restauri da parte dell’Istituto Centrale del restauro ( con una serie di campagne durate dal 1963 al 1983), anche esse – naturalmente – rispettose della storia restaurativa dell’opera.

Per quanto riguarda i dipinti in frammenti (circa 300.000), una volta riconosciuta realisticamente attuabile, anche in seguito a numerosi confronti pubblici con specialisti italiani e stranieri,  l’opzione della ricostituzione e ricollocazione delle immagini (di contro all’ipotesi pessimistica di una loro musealizzazione o, peggio, conservazione in magazzino), rimaneva da risolvere il problema di quale modalità impiegare per la restituzione del testo pittorico.

Si procedette ancora una volta secondo il metodo, caro all’Istituto Centrale del Restauro, dell’intervento campione (o “intervento pilota”), scegliendo allo scopo i Santi Rufino e Vittorino, cioè la coppia di Santi più significativa sotto l’aspetto tecnico (per la notevole quantità e significatività dei frammenti recuperati, ma soprattutto per la collocazione delle due immagini al culmine dell’arcone).

I relativi frammenti furono ricomposti seguendo una metodologia analoga a quella messa a punto e impiegata ormai da decenni dall’ICR, a cominciare dai casi “storici” degli affreschi quattrocenteschi di Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta della chiesa viterbese di S. Maria della Verità e di quelli di Andrea Mantegna e compagni nella Cappella Ovetari della Chiesa degli Eremitani a Padova , che del resto si ponevano come precedenti inderogabili anche, e direi soprattutto, dal punto di vista della reintegrazione delle immagini.

Tra i 2 casi però, al di là delle innegabili analogie, esistevano diversità tutt’altro che trascurabili.

Nel caso di Viterbo, per esempio, si trattava di ricostituire la decorazione di un intero ambiente, di ridotte dimensioni, unitario nel rapporto spazio reale-spazio figurativo, mentre invece nel caso degli 8 Santi (e della Vela di S. Girolamo) si era in presenza di una parte minima della decorazione complessiva della Basilica (180 mq su 5.000), in un ambiente di imponenti dimensioni (in cui pertanto sarebbe stato irrealistico puntare su una riconoscibilità dell’intervento di restauro mediante tratteggio), con una decorazione segnata in maniera macroscopica dalle tracce di precedenti restauri (risulta mancante circa il 10% della superficie totale), generalmente – come si è già osservato – con trattamento delle lacune “a neutro”.

Ultimo, non trascurabile fattore di diversità è costituito dalla aumentata esigenza di percezione della materia originale in quanto segno inequivocabile dell’autenticità di un’opera, pertanto da alterare il meno possibile con “completamenti” dell’immagine per quanto perfettamente riconoscibili.

L’opzione di fondo, anche se in via provvisoria e sperimentale, fu pertanto quella di non reintegrare in maniera mimetica l’immagine, limitandosi a ricostituirne l’unità potenziale tramite l’abbassamento ottico delle lacune, del resto in perfetta sintonia (come si è visto) con quanto era stato fatto precedentemente nel trattamento delle lacune delle pitture rimaste in situ.

Ricollocato prima della riapertura della Basilica restaurata il pannello – campione, si ebbe subito conferma di quanto era stato previsto: le immagini dei 2 Santi ricostituite funzionavano benissimo da vicino, ma producevano un effetto di insopportabile “sfarfallio” ora che si trovavano a 20 metri di distanza e in certe condizioni di illuminazione naturale (soprattutto la luce radente proveniente dal rosone), ovviamente ineliminabili

La definizione del problema, dunque (e anche questo era stato previsto), doveva essere rinviata al momento in cui tutta la decorazione mancante in quella zona sarebbe stata ricostituita o, quanto meno, allorquando anche gli altri 6 Santi sarebbero stati ricollocati e di conseguenza tutta la decorazione dell’arcone ricomposta.

Solo così sarebbe stato possibile ricostituire la struttura formale della decorazione tenendo conto del rapporto intrinseco con l’architettura reale e con quella dipinta, riportando le figure dei Santi a campeggiare, per quanto possibile, all’interno delle finte bifore con fondo azzurro pur senza doverne ripristinare mimeticamente le mancanze.

Due erano infatti i dati di riferimento fondamentali : alle basi dell’arcone sul quale sono dipinte le 8 coppie di Santi stanno 2 trifore reali (che consentono la continuità del percorso tra le pareti e la controfacciata, aggettanti al di sopra delle Storie di San Francesco) alle quali si rifanno, evidentemente, le bifore cosmatesche entro le quali sono collocati i Santi; gli 8 santi rimasti in situ perché insistenti sulle pareti (e le pareti, come si ricorderà, non sono state danneggiate seriamente dal sisma), sono però arrivati fino a noi in cattive condizioni, con zone completamente mancanti e altre ridotte quasi allo stato di larve – una situazione questa che, peraltro, non interessa soltanto la pittura dell’arcone ma buona parte della decorazione della Basilica Superiore, dai cicli di Cimabue ai registri alti della navata alla controfacciata contigua all’arcone. 

La conseguenza di quest’ultima constatazione è che sarebbe stato quanto meno incongruo cercare di ricostituire una pittura in maniera tale da presentarsi almeno apparentemente integra grazie ad interventi di ricostruzione mimetica delle parti mancanti proprio laddove più distruttiva era stata l’azione del terremoto.

 Si è optato pertanto per una soluzione che, pur non nascondendo le tracce di un evento così terribile, garantisse ciononostante la migliore fruibilità possibile dell’opera attenuando al massimo l’interruzione del tessuto pittorico relativo all’architettura dipinta e al fondo azzurro e limitandosi ad attutire il disturbo visivo che avrebbero recato le lacune all’interno delle figure dei Santi se il loro intonaco non fosse stato otticamente “abbassato” ad acquarello fino a risultare “retrocesse” rispetto all’emergere delle zone originali delle immagini ricostituite.

Ciò ha consentito di restituire all’opera la sua struttura formale originaria, ricostituendo il rapporto spaziale tra figura, architettura e fondo e quindi anche l’originaria continuità sia con gli altri Santi dell’arcone che con le trifore in muratura.

Si tratta, naturalmente, di una soluzione che si richiama pur sempre alla fondamentale intuizione di Cesare Brandi sull’unità potenziale dell’opera d’arte, cioè al principio secondo il quale il vero scopo del restauro di un’opera d’arte lacunosa non può essere quello di ricostituirne la integrità fisica perduta ma quello di fare in modo che l’immagine sia ricostituita nella sua unità formale e quindi possa tornare ad espletare la funzione per cui era stata creata.

E’ ovviamente vero che Brandi aveva anche messo a punto la tecnica del “tratteggio” proprio per rispondere ad una esigenza analoga, trattandosi di cicli di affreschi ridotti in frammenti dalle bombe della Seconda Guerra mondiale: ma era diverso il contesto storico e culturale e, soprattutto, era diverso – comprensibilmente - il clima psicologico, che richiedeva risultati rassicuranti anche a costo di qualche forzatura (per la verità più sul ciclo del Mantegna che su quello di Lorenzo da Viterbo ).

Brandi, del resto, aveva più di una volta chiarito che la bontà dei risultati non dipende dagli espedienti tecnici impiegati ma dalla capacità di dare risposte adeguate all’esigenza di ricostituzione della “unità potenziale” ma che, d’altra parte, per risolvere correttamente il problema della reintegrazione delle lacune uno strumento prezioso poteva essere costituito dal ricorso a quel meccanismo fondamentale del vedere umano che consiste nell’immediata percezione di un rapporto figura-fondo all’interno dell’immagine: pertanto, quanto più si riesce a “cacciare” verso il fondo le lacune, “abbassandone” il rilievo ottico, tanto meno esse possono disturbare la lettura e il godimento dell’opera.

 La messa a punto di una soluzione tecnica adeguata alla specificità della situazione è stata lungamente discussa e meditata non solo all’interno del cantiere, cioè tra gli storici dell’arte e i restauratori impegnati in esso, ma anche in numerosi incontri con specialisti esterni, italiani e stranieri, culminanti nel I Convegno internazionale di primavera sul restauro (La realtà dell’Utopia), tenutosi ad Assisi dal 22 al 24 marzo 2001, dal quale uscì pienamente approvata l’impostazione metodologico-tecnica data al problema dallo scrivente 

Del resto una ulteriore conferma, quanto meno al nocciolo della questione, importante anche se atipica, è venuta da un’indagine sul pubblico che, ogni sabato, veniva ammesso a visitare  il cantiere e che ha mostrato di condividere in larga maggioranza l’opzione di fondo di questo lavoro, cioè fare tutto il possibile per ricostituire la situazione precedente al terremoto purchè ciò non andasse a discapito dell’autenticità (anche alcuni di questi risultati vengono qui riportati in appendice).

Una prima verifica la si potè avere subito dopo, in occasione della “scopertura” dell’arcone dei Santi restaurato (26 settembre 2001), ma per potere valutare adeguatamente la bontà della soluzione prescelta sarebbe stato necessario completare la ricollocazione dell’”unità figurativa” crollata mediante il riposizionamento del costolone e, soprattutto, della Vela con S. Girolamo e il suo accolito.

Nel caso della Vela, gli elementi di riferimento erano principalmente tre: l’architettura, solida e possente, che dà fondamento spaziale alla scena; il fondo che “chiude” la scena, in origine dorato e poi, caduta la doratura, giallo scuro perché era rimasta in vista la “preparazione”; le fasce policrome perimetrali che delimitano un modulo triangolare che si ripete in tutte e 4 le vele con i Dottori della Chiesa.

Come già per gli 8 Santi anche per la Vela di S. Girolamo ci si è posti il problema di come ricostituire l’immagine originaria, ben sapendo che il metodo da adottare non poteva che essere analogo a quello già precedentemente e positivamente sperimentato.

Solo che ora – come era stato previsto – la possibilità di attivare tutti i riferimenti visivi presenti nella decorazione ed in particolare quelli modulari (fasce perimetrali, elementi architettonici, motivi geometrici e floreali, campiture monocrome omologhe, etc) aveva consentito un risultato più pieno.

Giuseppe Basile
 

 “E’ assolutamente vietato di fare il restauro, o ritocchi, a colori supplendo le parti mancanti, o deteriorate, imitando l’originale. …Laddove mancasse il colore darvi in quella parte una tinta neutra tanto quanto il bianco non offenda l’occhio del riguardante. Se oltre il colore mancasse anco l’intonaco turare quei vuoti con nuovo intonaco e poi coprirlo con una tinta neutra …” (“Norme generali da seguirsi nei restauri degli affreschi”).

Vale la pena notare che a Padova, ed in particolare per la Cappella Scrovegni, il rifiuto di ogni integrazione mimetica trovava piena rispondenza nella tradizione locale, rappresentata soprattutto da Pietro Selvatico.

 Per la persistente funzionalità di questa intuizione brandiana  cfr. il recentissimo contributo di Alberto Argenton e Giuseppe Basile, Restauro e psicologia dell’arte: un’occasione di verifica della “Teoria del restauro” di Cesare Brandi, in Il restauro della Cappella degli Scrovegni.Indagini, progetto, risultati, Ginevra-Milano, 2003, 272-286.

 Cfr. Mostra dei frammenti ricostruiti di Lorenzo da Viterbo, Catalogo a cura di C. Brandi, Roma, Istituto centrale del restauro, maggio 1946 e C. Brandi, Mantegna ricostituito, in L’Immagine, 3, luglio-agosto 1947, 179-80.

L’esperienza dell’Istituto non è però limitata a quei due casi e basterà al riguardo citarne soltanto i due più recenti e di diretta esperienza di chi scrive: le decorazioni murali dell’Abbazia di San Vincenzo al Volturno e quelle del Monastero di S. Susanna a Roma.

Nel primo caso si tratta di 7 Profeti ed un giovane Santo non identificato degli inizi del sec. IX, rinvenuti in frammenti nel corso di scavi condotti dall’Università di Sheffield (cfr. di  G. Basile, Abbazia di San Vincenzo al Volturno: restauri in corso, e Il restauro delle decorazioni murali della Cripta dell’Abbate Epifanio e degli ambienti attigui dell’Abbazia di San Vincenzo al Volturno, in ARTE MEDIEVALE, rispettivamente II, 1/’88, 153-161 e XI, 1-2/’97, 171-197).

Il secondo rappresenta un caso piuttosto anomalo, dato che i frammenti (risalenti con ogni probabilità al sec. VIII) sono stati rinvenuti casualmente nel sottosuolo della sacrestia di S. Susanna conservati accuratamente all’interno di un sarcofago romano al di sopra di uno scheletro. Ricomponendoli è stato possibile ricostruire una Madonna con Bambino e 2 Sante, copia dell’icona della Madonna della Clemenza in S. Maria in Trastevere a Roma, un arco con i Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista ai lati dell’Agnello Mistico e 5 teste (una probabilmente di Cristo) in corso di identificazione (cfr. G. Basile, Recupero e restauro dei dipinti murali in frammenti del Monastero di S. Susanna a Roma, Assisi, 2004).

 Il tema fondamentale del convegno era costituito dal concetto di autenticità, indagato nei significati che esso assume in vari ambiti disciplinari (diritto, teologia, psicologia, comunicazione, etc.) ed anche in culture diverse da quella occidentale (per esempio in quelle cinese e giapponese, presso le quali, per la verità, il concetto è quasi sconosciuto), nonché in epoche diverse della nostra storia, con particolare riguardo alla storia degli interventi di restauro messi in opera sui dipinti murali della Basilica Superiore dal secolo XIX in poi. 

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