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La scomparsa di Giuseppe Basile - di Claudio Gamba

Inserito in Ricordi

Di Claudio Gamba - Associazione Bianchi Bandinelli

Giuseppe Basile è venuto a mancare, dopo lunga malattia, il 30 luglio 2013. La scomparsa di Pippo (come semplicemente lo chiamavano tutti quelli che avevano qualche confidenza con lui) lascia un grande vuoto nel settore della conservazione del patrimonio artistico, nel mondo della cultura e nella società civile.

Ma lascia anche, mi vien da dire, un grande pieno, perché per tutta la vita ha comunicato e insegnato, come collega e come maestro, come direttore di cantieri, come docente e come compagno di battaglie culturali. In tanti anni, da funzionario al servizio dell’Istituto Centrale del Restauro, da professore alla Scuola di Specializzazione in Storia dell’arte di Roma, da amico e da studioso, ha riempito gli altri di sé pur non essendo lui pieno di sé. Senza farsi demiurgo ha trasmesso la sua passione e la sua energia, con serietà e rigore, talvolta con spirito indignato, con venature di sarcasmo, altre volte con umile sbigottimento e perfino incredulità di fronte alle scellerate scelte sbagliate, alle non-scelte, alle contro-scelte che hanno minacciato e ogni giorno minacciano il nostro patrimonio storico e artistico.

Integerrimo servitore dello Stato, era un uomo cordiale ma poteva risultare spigoloso agli spiriti troppo accomodanti o a certa mondana aristocrazia intellettuale; aveva qualcosa di enigmatico, risultando perfino imperscrutabile a chi non conosca la natura prismatica della sicilianità. Era nato nel 1942 a Castelvetrano, terra che, come lui stesso ricordava in un’intervista, aveva visto la morte del bandito Giuliano e la nascita di Giovanni Gentile; celiando, si potrebbe ravvisare in questi estremi una sintesi dello spirito di indomita ribellione e di senso etico dello Stato, che Pippo teneva pressati nella sua figura così ossuta e francescanamente penitenziale.

Non esibiva affabulazione oratoria, il suo eloquio era asciutto, secco come il suo aspetto, talvolta non ben scandito perché condensava le frasi di premessa come un eccetera eccetera; non era per trascuratezza o disinteresse verso l’ascoltatore, ma perché aveva fretta di raggiungere il cuore del problema senza cancellare tutti i passaggi logici necessari. Le buone idee e le buone battaglie non sono frutto di illuminazioni e protagonismi ma la stringente conseguenza del metodo. Eppure, lui allievo a Palermo di Cesare Brandi e poi a Roma di Giulio Carlo Argan (come sempre mi ricordava), non faceva sfoggio di sistemi filosofici, che invece si svelavano sotto traccia agli interlocutori più colti ed attenti.

Si è sempre speso in attività che prevedevano la collaborazione di competenze, la sinergia di esperienze, l’integrazione generazionale. Il restauro non era solo una applicazione pratica di principi metodologici e tecnici ma un modello di lavoro, forse perfino un modello di società. Per questo teoria e prassi, scienza e tecnica, storia e filologia, intuito ed esperienza, non potevano, non possono, andare disgiunti. Forse può esserci un artista che lavora da solo nel suo studio (anche se solo non sarà mai: gli spiriti della sua cultura sempre gli parleranno), ma non esiste, o è sbagliata, la figura del restauratore che da solo pretende di guarire come un mago il manufatto artistico. Lo spiegò con lapidaria semplicità in quella preziosa sintesi divulgativa che è il volumetto Che cos’è il restauro, uscito nel 1989 nella collana “Libri di base” diretta da Tullio De Mauro per gli Editori Riuniti.

Se la battaglia per la tutela, per la conservazione, per il restauro, è una battaglia di civiltà (perché consente di preservare il più possibile la consistenza fisica e il senso delle cose), è anche una battaglia per la democrazia perché sollecita il lavoro di équipe, l’aggregarsi dei saperi tecnici e storici, la collaborazione tra discipline scientifiche e umanistiche. Le diverse professionalità, lavorando insieme, restituiscono la leggibilità dell’opera, nella materia e nell’immagine, la riconnettono con la storia e la ricollocano nell’oggi, cioè infine le ridanno una funzione civile come bene comune. Come ebbe a dire in uno scritto dedicato a Giovanni Urbani, la tutela “costituisce di fatto un contributo per garantire a noi stessi la pienezza della nostra esperienza di vita”. È una battaglia che contribuisce alla lotta contro l’alienazione dell’uomo nell’epoca della tecnica e lo è ancora di più, oggi, nella presunta post-modernità o post-storia: non si fa restauro senza storia del restauro, come non si fa critica militante senza storia artistica o letteraria e neppure scienza senza consapevolezza che ogni ritrovato del sapere umano è frutto del proprio tempo; le tecniche forse risolvono ma è la storia che spiega e umanizza. Per questo si è tanto adoperato, con l’aiuto di validissimi allievi e con l’Associazione Secco Suardo, nel fare la storia dei restauratori e nel salvare i loro archivi. Anche la mera operatività, unita alla teoria, è dunque storia, cioè coscienza del passato, azione nel presente, ipotesi di futuro. Ne consegue che chi si occupa di restauro partecipa alla trasformazione della società, cioè non può esimersi dalla militanza culturale, politica e civile.

Questo Basile lo ha sempre messo in pratica, con la sua adesione ad appelli, la sua partecipazione a manifestazioni, con la fattiva collaborazione a molte associazioni. E qui il ricordo si fa anche personale e si accavallano, confusi, i molti ricordi dei dieci anni di incontri e discussioni nel consiglio direttivo dell’Associazione Bianchi Bandinelli. Le competenze di Pippo sono state indispensabili per molte battaglie condotte dall’Associazione, basterà ricordare quel suo intervento al convegno sul “patrimonio culturale musicale” del 2001, che Chiarante aveva promosso per difendere una categoria di beni dei quali si stentava a riconoscere la specificità (generando indifferenza o inadeguatezza degli interventi). All’ICR Basile si era molto speso per il restauro degli strumenti musicali, sostenendo che il recupero della “fisionomia sonora” si inseriva perfettamente nella generale teoria del restauro; se ne era occupato anche a pochi metri dalla sua abitazione romana, nell’intervento sull’organo di Santa Maria in Trastevere, che per lui ha suonato un’ultima volta, al suo funerale, nella chiesa pienissima di amici e colleghi.

Per vari anni gli sono stato vicino, seppure un po’ in disparte, nell’organizzazione delle attività del centenario della nascita di Cesare Brandi, curando il sito e alcuni materiali divulgativi (e in fondo a lui debbo l’idea e la spinta operativa a promuovere l’analogo Comitato Nazionale per Argan, come una staffetta tra i due sodali che ha coperto quasi un decennio di iniziative). Basile aveva una certa difficoltà, direi generazionale, a capire le funzioni e il funzionamento di un sito internet e tuttavia ne era molto affascinato, ne intuiva lo straordinario potenziale per la diffusione in tutto il mondo del pensiero e dell’opera di Cesare Brandi; la rete poteva rivelarsi uno strumento essenziale per quel progetto che aveva portato avanti tenacemente per molti anni e che, pur dopo il naturale diradarsi delle iniziative, non aveva lasciato mai del tutto. Delle traduzioni in tante lingue della brandiana Teoria del restauro (si può dire che ormai quasi tutto il pianeta possa studiarne i contenuti) andava molto fiero, come lo era della piccola iniziativa editoriale che mirava a diffondere in sette lingue un glossario dei termini fondamentali, intitolato Teoria e pratica del restauro in Cesare Brandi. Ricordo che ne discutemmo insieme quando fu pubblicato nel 2007 perché ero in servizio presso il Sottosegretariato ai beni culturali e avevo avuto l’incarico di curare vari testi di presentazione per i volumi promossi da Pippo. Fu allora che cominciammo a darci del tu e la collaborazione divenne stima reciproca; certo la mia verso di lui era molto più di semplice stima, era sincera ammirazione per l’intensità della sua dedizione al lavoro, per la vastità delle conoscenze, per le energie che lo portavano a girare mezzo mondo, sia per consulenze su temi di restauro e sia per le iniziative brandiane che gli avevano permesso di piantare innumerevoli bandierine degli “Amici di Cesare Brandi” nella mappa del globo realizzata per il centenario. Per promuovere le attività dell’Associazione intitolata al Maestro continuammo a vederci spesso anche nella sua stanza all’Istituto Centrale del Restauro, che nel frattempo lasciava, andando in pensione, mentre io per un anno entravo a lavorare proprio lì accanto nell’Archivio storico dei restauri, trovandomi tra le mani la documentazione relativa a molti cantieri che anche Pippo aveva diretto, su opere di grandi artisti (Giotto, Antonello, Leonardo, Giulio Romano, Caravaggio), in celebri monumenti e chiese, su manufatti apparente minori ma non meno importanti per il tessuto connettivo della storia e dell’arte.

Terminate le celebrazioni brandiane ci siamo continuati a vedere nel direttivo dell’Associazione Bianchi Bandinelli, in particolare durante le discussioni sul destino del patrimonio artistico abruzzese dopo il terremoto. Per lui che aveva tanto lavorato in situazioni post-sismiche, in modo esemplare e sfidando gli increduli, e specie al cantiere di Assisi dopo il terremoto di Umbria e Marche, la questione dell’intervento a L’Aquila era sentita con una partecipazione intellettuale, professionale, etica e civile che allo stesso tempo gli procurò non poca amarezza, vista l’ottusità con cui era stato estromesso il Ministero e la paralisi degli interventi (“scosse e immobilismo” uscì come slogan a una riunione). I suoi tentativi di mettere a disposizione le competenze e le esperienze maturate in situazioni analoghe non ottennero nemmeno un elegante diniego da parte della debordante Protezione Civile. Ma cosa ci si poteva aspettare da chi gestiva affari e affarucci impiantatisi sulla tragedia aquilana?

Del resto lo stesso Ministero per i beni culturali (con le tutte le denominazioni successive, fino all’ultima, fuorviante, in chiave turistica) e lo Stato che per tanti anni ha servito, nonhanno saputo dare a Basile i giusti riconoscimenti; il silenzio dei vertici istituzionali sulla sua scomparsa ben esprime il vicolo cieco di burocrazia e incompetenza che attanaglia i beni culturali, emarginando sempre più i pochi e combattivi funzionari competenti. E qual è l’antidoto all’ottuso burocratismo se non la professionalità disciplinare e il metodo, o la teoria, come in fondo gli aveva trasmesso l’inesausta battaglia brandiana? Il progetto di Argan e Brandi per l’Istituto del restauro (competenze tecnico-scientifiche e storiche, analisi e sperimentazione, definizione di direttive nazionali, formazione e documentazione) poteva ancora costituire un modello per una seria riforma del Ministero, in rapporto con l’Università, con la ricerca, con il territorio, evitando derive economicistiche e privatistiche.

Insieme ai ricordi delle discussioni più recenti, mi torna vivida una immagine, durante quella che credo sia stata la prima occasione di conoscerlo, sui ponteggi di Assisi nel 1998. Mi ero intrufolato, non ancora laureato, in un viaggio al cantiere della Basilica promosso dalla Scuola di Specializzazione della Sapienza (dove Pippo insegnava dal 1991, succedendo alla lunga docenza dell’indimenticato Michele Cordaro): proprio in quei mesi continuava il coinvolgimento degli specializzandi nell’impresa ardua, perfino folle, della ricomposizione dei frammenti. Rivedo ancora noi giovani, e Marisa Dalai che ci accompagnava, con l’elmetto giallo, a pochi centimetri dal più emozionante e tragico squarcio del sisma: la crociera con le tre vele superstiti di Cimabue; e rivedo il prof. Basile che col dito ripercorreva la linea del crollo e discuteva con noi sul problema della ricollocazione dei frammenti. Poi, per il breve tempo che fui allievo della Specializzazione, lo seguii in altre visite a cantieri e nei viaggi, come quello memorabile a Padova, dove passammo una intera giornata nella Cappella degli Scrovegni a discutere gli interventi sul ciclo giottesco ripercorso palmo a palmo.

Giuseppe Basile il 12 marzo 2010 nel corso dell’incontro “Restauro fatto a pezzi” , presso l’Accademia Nazionale di San Luca

Proprio un’immagine della ricomposizione dei frammenti assisiati scegliemmo per lagrande mobilitazione in difesa dell’Istituto del restauro (che lui preferiva continuare a chiamare ICR e non ISCR), con lo slogan “Restauro fatto a pezzi”, per evitare lo sfratto e lo smembramento in più sedi ma anche la perdita di quel luogo simbolo per la storia della tutela: il convento di San Francesco di Paola, che Argan e Brandi erano riusciti a ottenere fondando l’Istituto e dove in molte riunioni nella vecchia biblioteca ancora ci guardava Adolfo Venturi nel ritratto bronzeo di Manzù.

L’urgenza di intervenire sul presente non era meno pressante di quella di conservare il passato, ma il passato è fatto anche di cose realizzate cinquanta o dieci anni fa o perfino ieri, aprendo una nuova frontiera, quella del restauro dell’arte contemporanea, che egli ha contribuito ad esplorare con convegni e pubblicazioni. Gli interventi su sculture e pitture del Novecento hanno avuto un peso non secondario nel suo curriculum, dalla Minerva di Arturo Martini e dal murale della Sapienza di Mario

Sironi, fino al Cavallo della Rai di Francesco Messina, per arrivare ai problemi connessi con i nuovi materiali e le nuove tecniche, come nel caso di Alberto Burri, dal Grande Cretto di Gibellina alla collaborazione con la Fondazione Burri di Città di Castello.

All’estensione temporale delle problematiche conservative corrispondeva anche una estensione spaziale, verso paesi lontani e culture in cui il concetto di originale e di rifacimento assumeva altro valore. Tutte frontiere che sollevavano dubbi sulla validità della teoria brandiana, mentre Pippo ne rivendicava l’applicabilità pur con tutta una serie di approfondimenti.

Alle linee direttrici del suo lavoro ha continuato a tener fede anche negli ultimi tempi, quando la malattia minava ogni giorno il suo fisico. A chi tutta la vita ha operato per contrastare la deperibilità della materia non poteva che prospettarsi ancora una volta la ferma volontà di dilazionare il più possibile l’aggressività disgregante del male, ben sapendo che la vita umana non è eterna come non lo sono le opere d’arte. E la lotta consisteva anche nel continuare a viaggiare e a fare progetti; per questo, da ultimo, aveva fondato l’Archivio internazionale per la storia e l’attualità del restauro “Per Cesare Brandi”, lasciandogli in dotazione i preziosi materiali di una vita di studi e di lavoro.

Ripenso, infine, al grande vuoto della vela crollata di Cimabue, ai pochi istanti che sono bastati per disgregarla, e mi viene lo stesso sbigottimento per la scomparsa di Pippo, per la perdita sul piano umano e per l’improvviso azzeramento di saperi e di esperienze accumulate. Ma noi possiamo evitare il danno ulteriore, possiamo raccogliere e ricomporre i labili frammenti, mantenerne vivo il senso, preservarne la memoria, continuarne gli insegnamenti. Sta a noi, chiamando a raccolta tutti i volenterosi, fare in modo che il grande vuoto della scomparsa di Giuseppe Basile possa essere un pieno, pur parziale e discontinuo, di ricordi ma soprattutto di attività e di battaglie in difesa della cultura e della storia.

Roma, 5 agosto 2013

 

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