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Bibbia e Corano a Lampedusa

Inserito in In memoria

Il lamento e la lode. Liturgie dei migranti

lampedusa corano

Giacomo Sferlazzo, L'iniziale raccolta, in Bibbia e Corano a Lampedusa (a cura di Arnoldo Mosca Mondadori, Alfonso Cacciatore, Alessandro Triulzi), Editrice La Scuola, Roma, 2014, pp. 133-136

Era il 2005 quando trovai nei pressi del porto vecchio di Lampedusa un pezzo di barca e un Corano appartenuto ai migranti. Da qualche anno avevo cominciato a rielaborare diversi tipi di oggetti, ma mai avevo avuto tra le mani qualcosa che trattenesse e sprigionasse tanta forza e tanta “verità”. Con quegli oggetti feci la mia opera Verso Lampedusa, la prima di  una serie dedicata ai migranti. Fino al 2009 non raccolsi altro, e quello che accadeva sull'isola rispetto all'immigrazione rimaneva per me ad un livello emozionale: provavo vicinanza e compassione per i migranti, avevo in me i germi politici di una lotta globale contro un sistema che mercifica le cose e le persone, ma questo rimaneva in me sommerso, in embrione.

Nel 2009, a seguito delle proteste contro la realizzazione di un CIE a Lampedusa da parte del governo in carica, fondai, con altri compagni, l'associazione Askavusa [ “a piedi scalzi”] e nello stesso anno, alla discarica di via Imbriacola, trovai un pacco contenente lettere, foto, testi religiosi, CD musicali provenienti dall'Etiopia (come abbiamo scoperto in seguito). Quando cominciai a scartare quel pacco, per me fu come scoprire le piramidi d'Egitto, qualcosa di importante per l'umanità tutta, nonostante quelle lettere e quelle foto fossero del tempo che io sto vivendo. Per me si è avviata un'archeologia dell'anima che ha portato a scavarmi dentro. Dopo quel giorno, al di là del mio operare sugli oggetti dei migranti, insieme all'associazione abbiamo cominciato sistematicamente ad andare nelle discariche, sulle barche dei migranti, dove c'erano resti del passaggio di donne e uomini provenienti da mezzo mondo. La raccolta si intensificò e oggi abbiamo centinaia di oggetti. Le rovine che io ho trovato nella mia personale archeologia erano rovine politiche, le rovine di un'Europa fondatasul dominio dell'altro attraverso la sua conoscenza e costruzione culturale prima che militare ed economica.
Negli anni abbiamo incontrato tantissime persone: migranti, studiosi, artisti, associazioni che si sono interessate a quello che stiamo facendo. Nasceva già in quella fase l'idea di realizzare un museo. Da uno di questi incontri è nata una bellissima collaborazione. A Roma, alla Casa Internazionale delle Donne, due amiche, Paola Ortensi e Maria Teresa Tavassi, mi presentarono un uomo magro, con la barba bianca. Subito ebbi un'enorme simpatia per lui e credo anche lui nei miei confronti; il nome Giuseppe Basile a me non diceva niente e a lui niente il mio nome, ma la sua curiosità e la sua voglia di dare una mano per il progetto di cui gli avevano parlato Maria e Paola gli illuminavano il viso, come fosse un ragazzo alle prese con la sua prima passione. parlammo a lungo quel giorno e poi fu lui a venire a Lampedusa, più di una volta e insieme alla sua splendida moglie Vita. Imparai a conoscere il maestro del restauro Giuseppe Basile, ricordo meravigliosi racconti sul colore di Caravaggio o sui restauri della Basilica di Sam Francesco e in particolare un suo racconto di un progetto di restauro in Cina. Quando parlava del patrimonio artistico mondiale sottolineava il fatto che la presunta supremazia dell'arte italiana in termini quantitativi ed anche qualitativi era molto discutibile e chee lui non la dava come qualcosa di acquisito, anzi riconosceva il valore enorme di tante espressioni culturali che rimanevano sconosciute e sommerse. Leggendo [Edward] Saïd, le sue parole mi appaiono ancora più chiare e lucide, nei processi culturali c'è sempre il pericolo di una colonizzazione, specie quando questi si istituzionalizzano e si costituiscono come forma definita. Quello che comincia come una necessità pratica, di gestione e di  organizzazione molto spesso diventa la “Macchina” rappresentativa, di Stato.
L'esempio del lavoro di Pippo, come mi piace chiamare il maestro Basile, nelle istituzioni è importante per la sua efficacia. Ha portato alla conservazione di molte opere d'arte di importanza assoluta, ed è questo che per sempre renderà il suo operato universale, ma resta poi la critica dell'uso dell'espressione e della committenza culturale ed artistica. Oggi è questo che io mi chiedo, gli oggetti dei migranti possono essere usati in diversi modi, il museo si può costituire in forme molteplici e con altrettante funzioni; un percorso nato spontaneamente e politicamente può spostarsi con un piccolo movimento su altri binari. In un mondo in cui la rappresentazione el migrante è difficilmente auto-rappresentazione e si esce di rado fuori dallo schema invasori/vittime, ridare ai migranti una voce ed una connotazione politica è complesso, ma non impossibile. Grazie all'interesse ed al lavoro del maestro Basile e delle associazioni AMM [Archivio delle Memorie Migranti] e Assoociazione Isole si è riusciti a restaurare ed esporre un primo gruppo di reperti cartacei, mentre intanto il maestro Basile è scomparso lasciandoci in eredità la sua compostezza, il suo sapere ascoltare, la sua educazione e il suo amore per la conoscenza.
Le ultime cose che abbiamo preso sono state raccolte dal mare, un mare a cui qualcuno vorrebbe imputare la morte di molti migranti, ma il mare non ha colpe, queste vanno rintracciate nelle scelte politiche di un'Europa che sta militarizzando il Mediterraneo e Lampedusa; queste scarpe, questi pantaloni e magliette, insieme agli elicotteri, alle navi da guerra, ai corpi armati presenti sull'isola, per me hanno questo valore e questo senso.

 

Un’idea di Museo
Il progetto di archivio e documentazione sulle migrazioni di Lampedusa


La catalogazione e il restauro
Il progetto per la creazione di un centro di documentazione delle migrazioni di Lampedusa e Linosa si caratterizza per la particolarità della “collezione” su cui l'associazione Askavusa, al principio, e ilComune di Lampdusa  e Linosa in seconda fase, ci chiamavano a intervenire. Un numero cospicuo di oggetti, centinaia, recuperati a partire dal 2009 dall'associazione lampedusana nella discarica di via Imbriacola di Lampedusa, o direttamente lungo la costa. Dall'inizio della collaborazione al progetto, si è articolato, così, un piano di lavoro collegiale e condiviso, organizzato in fasi successive e autonome, finalizzato a “catalogare” il materiale per creare un archivio. Gli oggetti, appartenenti a tipologie molto diverse tra loro (indumenti, stoviglie, lettere personali, cd musicali, etc), sono stati ordinati perché fossero testimonianza di una tragedia realmente vissuta da persone costrette in fuga dal loro Paese, ed insieme documento politico del lascito di scelte storiche, economiche, culturali, che stanno all’origine dei movimenti migratori del Mediterraneo. Da un lato, dunque, l'urgenza di consegnare alla memoria collettiva un patrimonio culturale e storico che, senza retorica, appartiene all'umanità. Dall’altro, però, anche l’esigenza di sottrarre gli oggetti, i documenti, le immagini, al rischio della feticizzazione, e cioè della loro riduzione a grottesco simulacro di una morte di donne, uomini e bambini rivelata ed ostentata senza pudore, di una vicenda disumanizzata indistinta e massificata, privata di ogni intimità e per questo, al fondo, inavvertibile come reale, come vissuto. Da queste considerazioni nasceva la scelta di un percorso di studio e raccolta ragionato, che affiancasse la funzione della tutelaalla ferma convinzione che, grazie alla traduzione ed allo studio dei documenti catalogati da realizzare con i migranti stessi, l'archivio avrebbe potuto restituire le storie, i percorsi di vita delle persone migranti. L’obiettivo era infatti procedere all'individuazione dei proprietari per restituire loro, in un futuro prossimo, non solo la storia, ma anche gli oggetti stessi, gli album di foto del matrimonio, le lettere personali.
Il progetto di archiviazione è stato ideato dal professore Giuseppe Basile come passaggio essenziale di un percorso che doveva preliminarmente comprendere le fasi di restauro, messa in sicurezza dei materiali cartacei e digitalizzazione fotografica a fini di studio e ricerca. Gli oggetti sarebbero stati mostrati e resi visibili soltanto dopo, in una sede dedicata ed in condizioni di sicurezza.
Un restauratore di fama internazionale come Basile, che, dopo essersi dedicato alla cura dei capolavori di Giotto e dell'arte moderna italiana, è transitato pioneristicamente al restauro dell'arte contemporanea segnandone il corso, ha, dunque, rintracciato in questa sfida fuori dai consueti canoni di classificazione tradizionale, un valore umanistico fondamentale e, per questo, deciso, negli ultimi anni della propria vita, di dedicarsi al servizio del progetto e dei migranti con l’entusiasmo di un esordiente.
Il sistema elaborato dall'associazione Isole insieme al prof Basile, si è articolato in una pluralità di fasi di lavoro. La prima fase è stata quella di inventariare in loco, a fini conservativi, gli oggetti. Ma con quali strumenti? Secondo quali criteri? Da dove iniziare e con quale ordine di scelta procedere? Con Basile si è avviata una prima selezione che configura il nucleo iniziale della costituenda “collezione”, qualche decina di oggetti selezionati, anzitutto, a ragione della capacità di rappresentare la tipologia cui appartengono, e così sintetizzare la complessità e la diversità del materiale recuperato; poi in funzione dello stato conservativo, distinguendo quelli deteriorati al punto da necessitare una “lettura” più approfondita, o quelli destinati ad una prima campagna di interventi conservativi e di restauro. Sulla base di tali criteri è stato possibile ottenere due serie: una costituita da oggetti direttamente documentari, ovvero materiali cartacei variamente interpretabili (come lettere, cartoline, diari, foto, appunti, documenti, etc.); l’altra da oggetti indirettamente documentari, scelti per categorie rappresentative (come utensili, indumenti, pentolame, cibo, etc.).
Si è proceduto dunque alla catalogazione vera e propria, ideando una scheda di catalogo ad hoc, uno strumento che potesse comprendere e ordinare informazioni analitiche, tecniche e conservative, nonché di contesto, anche relativamente a “beni” così diversi tra loro. In via sperimentale la scheda è stata costituita intrecciando le voci delle schede OA e D, usate rispettivamente dal Ministero per le opere d’arte e per i disegni, e le voci relative alla scheda per i beni demoetnoantropologici. È emersa fin dall’inizio dei lavori la necessità di riunire più competenze per la lettura e l’interpretazione degli oggetti che andavamo catalogando, attraverso un lavoro di equipe che comprendesse: i migranti stessi, soprattutto per il riconoscimento, la comprensione e la traduzione di utensili e materiali cartacei; Basile e l’associazione Isole; studiosi dell’Archivio delle Memorie Migranti, per l’identificazione e la traduzione dei materiali; nonché l’associazione Askavusa che li aveva recuperati, testimone diretto degli sbarchi di questi anni, in grado di ricostruire le vicende del ritrovo e contestualizzarli anche all’interno delle dinamiche sociali dei lampedusani.
Il percorso avviato sotto la direzione di Basile, si è concluso con le fasi del restauro e della messa in mostra. La prima è stata possibile grazie alla preziosa collaborazione del Laboratorio di restauro della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, che ha accolto il progetto offrendo le competenze e gli strumenti del suo Laboratorio per i primi materiali che andavamo schedando. Si è trattato di interventi ovviamente conservativi, ma come ha precisato il Direttore Francesco Vergara Caffarelli, nella sua lettera di consegna dei reperti al Sindaco di Lampedusa, “gli interventi che i restauratori del Laboratorio, in accordo con gli organizzatori del nascente Museo, hanno ritenuto di dover mettere in atto, non sono finalizzati al recupero dell’integrità dei manufatti, ma esclusivamente alla salvaguardia e conservazione. Lo scopo è infatti quello di mantenere la condizione attuale del reperto, a supporto della memoria cui è destinato…”
Il 16 luglio 2013, nell'ambito del “Lampedusa in festival”, si è inaugurata a Lampedusa la mostra dal titolo “Con gli oggetti dei migranti”, a cura dell'associazione Isole. L'esposizione ha rappresentato così la tappa conclusiva di questa prima fase operativa relativa al più ampio progetto di costituzione del museo/centro di documentazione delle migrazioni di Lampedusa e Linosa. Non solo una mostra, dunque, che presentasse la collezione di oggetti appartenuti ai migranti e ritrovati sull’isola, ma qualcosa di più impegnativo sul piano culturale, scientifico e sociale.
L'associazione Isole ha accostato a tale percorso anche un programma di residenze d'artista, invitando l'artista Emily Jacir a Lampedusa per un progetto che ampliasse il nostro sguardo sul presente, a partire dagli oggetti in mostra e per dar loro nuova voce, lavorando sul piano della poetica e dell'immaginario, componenti essenziali in relazione alle dinamiche che l'intervento dell’artista ha voluto innescare.
Nel complesso, l’esperienza fin qui condotta ha confermato intuizione che l'arte contemporanea, muovendo da una condizione di ascolto, dei luoghi e delle storie, per promuovere e valorizzare il dialogo può rintracciare un valore umanistico fondamentale, comunicabile attraverso linguaggi non consueti, che toccano corde personali, intime e collettive al tempo stesso. Intuizione che da sempre per progetto Isole è ragione fondativa e presupposto sostanziale della ricerca.

Barbara D’Ambrosio e Costanza Meli

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