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"Eccellenza" del restauro italiano

Inserito in Scritti

di Giuseppe Basile

La produzione artistica sul territorio del nostro Paese si caratterizza per l’intensità, la diffusione e l’ininterotta continuità: condizione, quest’ultima, di grande privilegio, come risulta se si mette a confronto la nostra con altre non meno grandi ma sfortunate civiltà artistiche (per es. la greca), giunte fino a noi con vuoti incolmabili.

Il merito principale va alla Chiesa Cristiana che capì l’importanza di conservare e perpetuare anche i segni tangibili dell’Impero Romano, pur modificandone il senso e talora anche la funzione (il caso forse più comune è costituito dalla trasformazione dei monumenti pagani in chiese o comunque edifici del nuovo culto).

E’ da allora quindi che la “stratificazione culturale” ( per una convergenza di cause alle quali qui non è possibile neppure accennare) viene investita di valore, a condizione però che tali “strati” fossero pervenuti nella loro autenticità.

Evidentemente tale nozione aveva in origine un significato essenzialmente religioso, trattandosi della autenticità delle reliquie. Ma ben presto il valore di autenticità venne riferito anche alle opere d’arte, soprattutto quando cominciarono a venire fuori dal sottosuolo (in particolare a Roma) le opere degli antichi e si sentì di conseguenza il bisogno di differenziarle dalle copie e, in seguito, dai sempre più numerosi falsi. Non a caso il primo documento ufficiale di tutela dell’età moderna è la ben nota Lettera di Raffaello al Papa Leone X .

Essa rispecchia il senso di reverenza di quei nostri antenati nei confronti della cultura ed in particolare dei monumenti e delle opere dei Romani “antichi”, ma anche l’ambizione di farli “rinascere” attraverso la propria opera. Tramontata l’illusione  degli artisti del Rinascimento di eguagliare gli antichi e, a maggior ragione, quella successiva di superarli, l’autenticità assunse un valore ancora più alto tanto da venire ritenuto inaccettabile tutto ciò che avrebbe potuto incidere negativamente su di essa.

Il successivo, definitivo passo fu compiuto circa due secoli fa, quando si consolidò la convinzione della irrevocabilità del passato e, pertanto, la coscienza della unicità e conseguente insostituibilità delle sue testimonianze ed in particolare dei suoi segni tangibili e più rappresentativi, cioè i monumenti ed in genere i manufatti di importanza storica e artistica.

Così, a difesa della propria identità nazionale, il nuovo Stato italiano (continuando una tradizione già presente negli Stati preunitari, a cominciare da quello della Chiesa) emanò norme tese a bloccare o quanto meno a contrastare la fuoriuscita di “oggetti di storia e d’arte” ma cercò contemporaneamente di intervenire per la salvaguardia di quanto non poteva essere comunque esportato, cioè i monumenti e le loro decorazioni. Ed è proprio in questo cruciale momento che la cultura italiana, grazie al consolidato atteggiamento di apprezzamento dell’autonomia della produzione artistica e pertanto alla maggiore consapevolezza del valore di autenticità nelle opere d’arte, traccia una propria, autonoma strada, quella del restauro critico (Camillo Boito), che supera le due opposte tendenze allora imperanti nel campo del restauro architettonico, quella di Eugene Viollet le Duc (rifacimenti in stile o “à l’identique” delle parti mancanti o malandate e addirittura completamenti di monumenti medievali rimasti incompiuti) e quella “eutanasica” di John Ruskin (lasciare che i monumenti giungano alla loro fine naturale anche perchè qualsiasi intervento finirebbe con l’alterarne quei caratteri che li rendono insostituibili). 

Contemporaneamente – e non a caso – anche per il restauro delle opere d’arte si perveniva a concezioni analoghe, tanto che il grande storico dell’arte Giovan Battista Cavalcaselle, divenuto Ispettore centrale del Ministero della cultura, si affrettò ad emanare (1877) norme severe per constrastare il fenomeno del restauro “amatoriale” (dilagante perchè sorretto da un massiccio mercato antiquariale), che usava rifare le parti mancanti o deteriorate di un’opera, generalmente pittorica, per renderla più appetibile ad acquirenti non sempre dotati di gusto raffinato.

La teoria e la prassi messe a punto da Cesare Brandi nell’Istituto centrale del restauro da lui fondato (1939) fecero fare alla disciplina un ulteriore balzo in avanti , trasformando il restauro da attività sostanzialmente artigianale (riparazione, ripristino, completamento stilistico) in attività primariamente culturale, dato che esso diventa critica artistica in atto. 

Ciò comporta anzitutto  l’assoluto rispetto dell’originalità e quindi della autenticità dell’opera anche se non ne penalizza la fruizione perchè Brandi (ricorrendo ai più avanzati risultati dell’estetica e della psicologia della percezione) mette a punto 2 tecniche di reintegrazione delle lacune (il “tratteggio” e “l’abbassamento ottico”) che consentono di ripristinare l’unità potenziale di un’immagine artistica pur senza doverla completare materialmente (con il rischio di dovere rifare tutto se, per esempio, si scopriva che l’attribuzione dell’opera ad un dato autore era sbagliata ...), superando così la tradizionale aporia tra un testo autentico ma poco “gradevole” ( con le lacune trattate “a neutro”) ed un testo apparentemente integro ma “falso”. 

Ma ciò comporta anche una cosciente assunzione di responsabilità nei confronti della stratificazione storica, la cui valutazione (e la conseguente, eventuale scelta di quali strati privilegiare, quando risultasse impossibile salvarli tutti) non attiene alla sfera della tecnica, ma a quella della specifica cultura artistica. 

Essere riusciti a garantire l’autenticità (anche solo residua) del manufatto artistico senza sacrificarne la fruibilità (in termini brandiani la contestuale salvaguardia sia dell’istanza estetica che di quella storica) costituisce motivo di vanto per il modo in cui da noi si intende l’approccio al restauro e la conseguente prassi operativa.

L’istanza storica ha peraltro anche il merito di anticipare l’attenzione e la cura odierne per la materia dell’opera, i cui segni possono aiutarci a ricostruire aspetti non trascurabili della nostra storia e quindi della nostra identità (o, come ora usa dire, delle nostre radici): la scoperta sui conci dei paramenti murari del duomo di Cefalù di iscrizioni in lingua greca, araba e latina ha consentito di consolidare l’ipotesi di una compresenza di maestranze bizantine, magrebine e locali dando così un notevole contributo alla caratterizzazione della politica culturale del Regno normanno.

 

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