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Alcune riflessioni sul restauro delle opere d'arte contemporanee

Inserito in Scritti

di Giuseppe Basile

La prima domanda alla quale si deve rispondere è se è opportuno e se è possibile restaurare le opere d’arte contemporanee.

Per fare questo bisogna fare una serie di distinguo ad evitare che la risposta, qualunque essa sia, possa apparire estremamente generica o addirittura priva di contenuti minimamente apprezzabili.

Qualche giorno fa abbiamo assistito alla scopertura del Cavallo morente (altri preferiscono chiamarlo rampante) di Francesco Messina collocato dinanzi alla Sede centrale della RAI a Roma, al termine di un restauro di 6 mesi effettuato dal nostro più autorevole organo nel campo, l’Istituto centrale del restauro.

Ebbene in quel caso sia la metodologia che le tecniche e i procedimenti di restauro non sono stati diversi da quelli richiesti da un monumento in bronzo storico, per esempio dal restauro del Marco Aurelio che lo stesso Istituto aveva portato felicemente a termine alla fine degli anni ’80.

Questa situazione riguarda fondamentalmente tutte le opere che sono state fatte utilizzando materiali e procedimenti tecnici analoghi a quelli tradizionali e che pertanto possono essere in linea di massima classificati come manufatti in bronzo, in marmo, in legno, in stucco, in mosaico etc. anche se poi, al momento di scegliere le tecniche e i prodotti più idonei per effettuare il restauro ci potrà essere differenza nell’intervento di foderatura di un dipinto su tela ad olio o nell’intervento di pulitura  di una pittura con colori acrilici.

La problematica diventa più complessa quando si passa ai manufatti polimaterici, per esempio i collages: in questi casi però non è tanto l’attitudine e la metodologia che cambiano quanto piuttosto è la complessità della risposta tecnologica che aumenta a causa delle esigenze conservative spesso tra loro divergenti presentate dai diversi materiali costitutivi.

Si può pertanto dire in linea generale che fino a quando l’opera si risolve tutta nel manufatto che la costituisce ciò che può cambiare rispetto alla teoria ed alla prassi più consolidate nel nostro Paese, che riconoscono in Cesare Brandi e nell’Istituto centrale del restauro da lui fondato e diretto per 20 anni i loro indiscussi punti di riferimento, si riferisce più alle tecniche di conservazione che all’approccio metodologico, che rimane comunque ancorato all’esigenza fondamentale e irrinunciabile di conservare il manufatto nella sua autenticità anche materica.

Quando un artista come Michelangelo Pistoletto crea la Rosa bruciata utilizzando comunissimo cartone ondulato da imballaggio o Pino Pascali un Cesto ricorrendo alla “lana d’acciaio” è evidente che il problema principale diventa quello di trovare dei modi nuovi per evitare che l’uno venga danneggiato (basta una semplice compressione) e l’altro deperisca per esempio a contatto con l’umidità.

Nel primo caso infatti, avendo a che fare con un materiale così “vile”, le tradizionali tecniche di riparazione non sempre, anzi raramente risultano adeguate; mentre nel secondo il grosso problema consiste nella impossibilità pratica di trovare ancora in commercio quel materiale e quindi nella impossibilità di intervenire con una operazione di rimpiazzo del materiale originale danneggiato o degradato.

Di fronte a questi casi la risposta più intelligente parrebbe essere quella della conservazione preventiva, cioè dell’intervento non direttamente sull’opera ma sull’ambiente in cui l’opera si trova, stabilizzando in questo modo la situazione ma anche “ibernando” in qualche modo le opere.

La risposta è certamente di grande valore sul piano di una lungimirante politica di salvaguardia e in quanto tale vale ugualmente per l’universo delle opere d’arte precontemporanee: ma, a parte certe considerazioni di ordine economico da non sottovalutare, non sempre riesce ad essere efficace o quanto meno può esserlo ma a scapito di una considerazione e fruizione più globale e perciò più autentica dell’opera.

Risulta evidente, d’altra parte, che susciterebbe fondate perplessità un uso sistematico della teca microclimatica per opere certo non pensate e “realizzate” per vivere in una situazione da “acquario”: ve le immaginate le Balle di fieno di Pascali chiuse dentro teche trasparenti e a temperatura e umidità relativa costanti?

E tuttavia non siamo che agli inizi di tutta una serie di situazioni che non hanno precedenti nella produzione artistica precontemporanea.

Per restare a Pascali consideriamo i 32 mq di mare, circa : quando le vasche in metallo zincato cominciarono a mostrare segni inquietanti di ruggine ci si pose il problema se era più corretto sostituirle con altre di materiale più duraturo oppure (come poi venne fatto) intervenire su quelle originali per salvare quello che era possibile salvare ma soprattutto salvaguardando la scelta di un materiale “povero” da parte dell’autore.

Non basta, perché quel colore blu profondo era dato all’acqua da un colorante, l’anilina, peraltro tossico, che non era facile rimpiazzare.

Si poneva per quell’opera lo stesso problema che si pone per tante altre “categorie” di opere “artistiche” dei nostri tempi, cioè se debba essere privilegiata l’autenticità dell’opera o, al contrario, la sua identità ovvero – schematizzando molto -  se debba essere salvaguardata, conservata al massimo possibile la “materia” di cui è fatta l’opera anche a costo di sacrificare parzialmente la sua “forma” o il suo “aspetto” oppure questi valori debbono essere salvaguardati ( o ricostituiti o ricreati) anche a costo di sacrificare parzialmente o, in casi estremi, totalmente (cioè sostituendoli con altri nuovi) i materiali costitutivi dell’opera.

Uno dei casi più tipici è quello di un’opera optical per la quale quello che conta è garantire un effetto il più possibile identico a quello voluto dall’autore che non può più sussistere se i materiali da lui impiegati (uno specchio, per esempio, o un neon ) si sono col passare del tempo alterati.

In linea di massima valgono anche per questi casi i criteri metodologici riconosciuti validi per il restauro di tutti i manufatti aventi valore storico e generalmente anche artistico: individuare le valenze principali dell’opera e operare in tutti i modi possibili (cioè ricorrendo a tutte le strumentazioni messe a disposizione dalla cultura del nostro tempo: storica, scientifica, tecnologica) perché esse vengano salvaguardate.

Da questo punto di vista non c’è differenza sostanziale di approccio se si deve restaurare un’opera d’arte tradizionale o una contemporanea: la Maestà di Duccio da Buoninsegna a Siena ha avuto rafforzato il supporto in legno mediante l’apposizione di una “parchettatura” (che è in materiali diversi da quello che sostiene e, ovviamente, non si vede) come la Maternità di Pascali della Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea di Roma ha potuto  “riacquistare la sua pancia gonfia” (schiacciata a causa di un urto) reinserendo dal retro – come aveva fatto l’autore – un palloncino e gonfiandolo fino a fare raggiungere alla tela una forma assai vicina a quella originaria: il palloncino non era certo quello di Pascali, di cui non c’era più traccia, ma il risultato è stato sostanzialmente lo stesso, senza dovere ricorrere alla sostituzione dei materiali costitutivi della “forma” dell’opera.

Bisogna ammettere invece che per tutta un’altra serie di opere o meglio di oggetti una corretta “linea di condotta” non è così chiaramente e aprioristicamente delineabile: ciò succede principalmente quando gli oggetti non significano soprattutto se stessi ma, per così dire, “alludono” ad altro (per esempio nel caso del “concettualismo”) o, quanto meno, il loro significato – e quindi il loro valore – risiede solo parzialmente negli oggetti essendo il resto legato strettamente al luogo (spazio reale e virtuale) ed all’occasione (tempo oggettivo e soggettivo)- intendo riferirmi soprattutto alle cosiddette installazioni.

In questi ultimi casi bisognerà agire surrogando quello che non è fisicamente esistente con una adeguata “memoria” di esso, cioè documentando nel modo più fedele possibile la situazione originaria e, contestualmente, le intenzioni dell’autore e di coloro che con lui avevano collaborato alla realizzazione della installazione.

La documentazione, infine, costituisce l’unica possibilità di intervento e quindi , in senso lato, di restauro cioè di salvaguardia per tutti quegli “eventi” che, appunto, non si affidano alla fisicità della messa in opera ma all’azione che da essa viene espressa (il cavallo condotto nella galleria d’arte, per fare l’esempio forse più conosciuto).

E allora, se mai, il problema si trasferisce a come proteggere i supporti fisici della documentazione -–ed è ovvio che in questo caso la soluzione più adeguata parrebbe essere quella di riversare quei contenuti (suoni e immagini) su supporti più duraturi o addirittura non soggetti ad usura (per esempio informatici).

In casi del genere, del resto, i problemi da risolvere – e gli strumenti di cui si dispone – sono del tutto analoghi a quelli cui si ricorre tutte le volte che si ha a che fare con beni culturali immateriali.

Sullo sfondo parrebbe essere rimasto un quesito importante e piuttosto inquietante: è lecito intervenire anche su quelle opere o oggetti che nell’intenzione dell’autore non erano destinati a durare?

La risposta, com’è ovvio, può essere uguale e contraria a seconda che si privilegi l’intenzione originaria dell’autore (e quindi il suo diritto di “progenitura” senza limiti di tempo) o al contrario il diritto dovere di una società che riconosce alle espressioni “estetiche” un ruolo essenziale per la formazione civile di garantirne comunque la sopravvivenza (che costituisce peraltro l’unica soluzione possibile dal momento in cui l’opera, l’oggetto entra a fare parte di un rapporto economico).

 

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