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Sintesi degli interventi di conservazione e restauro del dipinto

Inserito in Cenacolo - Leonardo Da Vinci

I restauri del passato, lo stato di conservazione e gli interventi sul Cenacolo di Leonardo da Vinci

di Giuseppe Basile

I restauri del passato

Ai mali secolari del Cenacolo, che si originarono dopo pochi decenni dall'esecuzione, e al timore di perdere un'opera d'arte di valore, si rispose da un lato con l'esecuzione di copie, dall'altro con interventi di restauro.

La fama dell'Ultima Cena e l'influsso che subito esercitò sul mondo artistico contribuirono a creare attorno al dipinto un'aurea mitica che dovette giocare psicologicamente inducendo a un reverenziale timore i restauratori ai quali venne affidato il compito di "toccare" la Cena.

L'identificazione di tali interventi sulla superficie confusa e oscurata della Cena, anche se alla lettura diretta del dipinto si è affiancato lo studio delle testimonianze storico-letterarie, non è stato compito facile. I guasti prodotti dalle ingiurie del tempo, fra i quali un fisiologico fenomeno di condensa che ha accentuato i suoi danni a motivo dei materiali costitutivi dell'opera, si sono rivelati non meno gravi di quelli prodotti dalle mani dei restauratori, che in alcuni casi poco rispetto hanno dimostrato per il testo originale. Solventi, resine, cere e colle animali sono stati periodicamente usati nel tentativo di salvare il dipinto: dal mordace detersivo impiegato per pulire la pellicola pittorica, alla stesura di vernici e oli per "rinverdire" la superficie opacizzata, dai mastici per fissaggio d'inizio Novecento, all'uso, nel 1953, della gommalacca raffinata e diluita in alcool per consolidare: la Cena ha subìto interventi che spesso,col sovrapporsi di materiali disomogenei, hanno aggiunto danno a danno. La più grave alterazione è avvenuta con i due massicci restauri settecenteschi: vere e proprie ridipinture volte alla "manutenzione estetica" del dipinto.

Non rimane documentazione di restauri anteriori al Settecento, anche se esistono testimonianze chiare e specifiche sul precedente degrado dell'opera. Pure, il procedere del restauro ha rivelato interventi più antichi di quello datato 1725, presentato come primo dalle fonti. Questi furono probabilmente dovuti alla necessità di rimuovere dal dipinto polvere fissata da acqua di condensa; poi l'apertura della porta al centro della parete (1652) e altre manomissioni murarie furono probabilmente occasioni di nuovi interventi.

A restauro concluso si sono confermate quelle che al momento dei primi saggi erano soltanto ipotesi. È difficile, nella lunga serie dei restauri compiuti, datare con sufficiente approssimazione le pur rilevanti differenze riscontrate nel modo di operare e nell'uso dei relativi materiali. L'intonazione cromatica dei rifacimenti può essere dovuta a una alterazione della ridipinture, o può essere determinata dall'imitazione di una situazione tonale dell'area contigua trovata già oscurata dal restauratore, o può essere legata al gusto dell'epoca dell'intervento.

Agli ultimi decenni del XVI secolo risale forse la stesura di un colore scuro, con una spessa materia granulosa, impiegata nel tentativo di rimediare all'estesa lacuna nella parte superiore del soffitto causata dalla mancanza di adesione della preparazione-colore al sottostante intonaco liscio. Due altre opache stratificazioni di grigio, cronologicamente più tarde, hanno travisato totalmente sia il disegno sia la cromia originaria.

È stato possibile rintracciare rifacimenti stilisticamente fedeli all'originale, sicuramente basati su testimonianze dirette, nelle stesure verdi dei mantelli di Bartolomeo e Andrea che, insieme al bel restauro di due dita della mano sinistra di quest'ultimo apostolo, rivelano l'abilità di un consumato restauratore. Le perdite sono state sottilmente dissimulate con una scelta cromatica imitativa: un intervento di grande qualità, forse avviato in due aree, nella previsione di risarcire tutte le zone in cui era andata persa la stesura di verde che interessava anche i mantelli di Giuda, di Taddeo e l'abito di Giacomo. Il restauro, compiuto probabilmente nella seconda metà del Seicento, giunge fino a noi caratterizzato da una fitta craquelure priva della negatività che distingue le cadute materiche di colore dei rifacimenti settecenteschi: è eseguito, in parte su una base nera, con un pigmento di verde di rame e di giallo antimonio e un legante oleoso. In alcune parti è steso su stuccature di colore rosso. Tale intervento ha occultato gli unici brani allora rimasti del verde originale, mancante in tutte le altre campiture dello stesso colore e sicuramente asportato in occasione dei vari restauri.

Riguardo alle stuccature, una malta bianca a grossa granulometria sembra la prima materia ad essere utilizzata per risarcire vaste mancanze sia nell'abito di Giacomo, forse subito rovinatosi e occultato da tre ridipinture, sia nel manto blu del Cristo. Le stuccature nere sembrerebbero opera di restauratori settecenteschi.

Il restauratore Bellotti opera nel 1725. È presumibile che finì per apportare gravi danni all'intera superficie, già fragile e in quel momento indebolita dall'umidità, sulla quale andava compiendo una lavatura con lisciva e potassa, verniciando poi il dipinto con olio per attenuare l'opacizzazione prodotta dall'azione corrosiva del solvente. II Bellotti affronta il problema delle parti mancanti cercando di ristabilire una continuità di lettura dell'opera attraverso la stesura di una tinta pesante, opaca e sorda, che si è depositata soprattutto nelle perdite tra scaglia e scaglia di colore originale. Risarcisce con manualità affrettata e banale, ampliando i contorni dei visi, segnando con un solo tratto scuro diagonale gli occhi di Taddeo o aggiungendo la barba a Matteo.

Rimane inspiegabile la ragione per cui Bellotti impiegò metodologie differenti in alcune zone del dipinto, come per la stesura grigia del pavimento e della parete sinistra, per gli azzurri delle vesti, della tovaglia e del paesaggio, addizionando ai pigmenti del caseinato di calcio che si è tenacemente agganciato alla superficie. La stessa materia si presenta meno tenace in altre parti come, ad esempio, sugli arazzi lasciando dedurre che in tali zone non è stato impiegato caseinato di calcio.

La ridipintura del Bellotti è di facile identificazione perché il restauratore Giuseppe Mazza, che lavora mezzo secolo più tardi, si arresta al terzo gruppo di apostoli, lasciando intoccate le tre figure più a destra: ciò ha consentito il confronto fra le tecniche dei due interventi settecenteschi.

Il Mazza ridipinge la Cena mantenendo il precedente restauro, ma operando con modalità più descrittiva e minuziosa, come appare nella testa di Giuda. Anche in questo caso il ritocco non si limita alle lacune ma si estende sull'insieme del dipinto con una resa pittorica molto diversa dalla precedente grazie all'uso di larghe pennellate ricche di colore, poi particolarmente alteratosi. La materia è usata "a corpo", e assume un aspetto quasi lucido per l'impiego di oli e vernici sovrapposte.

Ben definito e documentato è l'intervento, datato 1821, di Stefano Barezzi, che viene incaricato di vagliare, attraverso una campionatura, la possibilità di uno strappo sulla mano destra del Cristo, che a tutt'oggi si presenta con la minuta frammentazione tipica delle zone di strappo. Inoltre incide vandalicamente una parte della tovaglia, sotto la figura del Cristo, per effettuarvi una prova di restauro o di strappo. In questa zona colma le lacune con della cera, poi ingiallita, e la copre con uno strato di colore a tempera che in alcune zone si presentava abbastanza trasparente per le varie, susseguenti puliture.

L'individuazione degli interventi non si limita a quelli citati: l'accertata presenza di altri materiali e modi di operare diversi da quelli degli episodi considerati è fonte di nuove congetture e ipotesi. È intrigante, ad esempio, il ritrovamento di residui di colore che sono emersi qua e là sulla superficie sotto le più antiche stuccature bianche, eseguite a contatto dell'intonaco. Si ipotizza che esse siano state applicate esclusivamente entro le lacune. Questo intervento fu sicuramente asportato dall'operatore settecentesco. Anche le ricostruzioni di un occhio di Andrea e di un occhio di Pietro si discostano dai restauri di Bellotti e Mazza: rifatti sommariamente sopra una approssimativa stuccatura bruna, sono sicuramente ascrivibili, per una diversa esecuzione, a un diverso restauratore. Ciò accade anche per due sommarie ricostruzioni del motivo ornamentale della tovaglia: la prima eseguita con un colore verde e granuloso; la seconda con un blu intenso a caseinato.

Va ricordato inoltre che tutti gli interventi che si sono susseguiti a più riprese sulla tormentata superficie del Cenacolo, fino all'ultimo del 1950, non si sono limitati al consolidamento o al trattamento delle lacune, ma hanno anche rimosso in parte le precedenti ridipinture, impedendo così il formarsi di una stratificazione uniforme nelle varie zone interessate dagli interventi, che ne avrebbe facilitato l'identificazione. Anche la mancanza di rapporti e relazioni scritte da parte degli esecutori lascia forzatamente qualche dubbio nell'interpretazione delle testimonianze pervenuteci.

Nei tre interventi documentati del nostro secolo – dovuti al Cavenaghi (1903-1908), al Silvestri (1924) e al Pelliccioli (1947-1954) – prevale l'intento della conservazione dell'esistente. Appaiono negli archivi le prime considerazioni sullo stato di salute dell'opera, sempre più attente e minuziose, anche se la documentazione non fornisce molti lumi sui materiali usati per il consolidamento e la pulitura. Più facilmente identificabili sono le acquarellature di Luigi Cavenaghi, che cerca di risarcire le lacune con toni cromatici più leggeri dell'originale, ad esempio sulla manica azzurra di Filippo. Egli venne chiamato per asportare le colle usate dal predecessore, e afferma che i suoi rifacimenti pittorici si sono limitati alle sole zone lacunose.

Diversamente interpretate appaiono le integrazioni del Silvestri e quelle del Pelliccioli, tutte a tempera e di un colore "neutro", ora freddo ora caldo.

Prima dell'integrazione pittorica, Oreste Silvestri consolida il colore con iniezioni di fissativo composto da una resina-mastice sciolta in essenza di petrolio e addizionata a cera. L'operazione si concluse con l'uso di rulli di ferro a caldo e, infine, di un rullo di gomma: anche se estremamente rischiosa, questa operazione parve dare nuova consistenza e vivacità al colore.

Nel 1947 Mauro Pelliccioli asporta in parte i restauri precedenti, operando soprattutto sugli incarnati con trementina, alcool e bisturi. Egli riesce con abilità a mantenere l'equilibrio della visione dell'intera l'opera. Non va dimenticato che dall'Ottocento si era affermata una tradizione di restauro "antiquariale", consistente in sostanza nel pulire a fondo le sole zone chiare e in luce con l'intento di "farle cantare" in contrasto con le zone scure, trascurate dall'operatore. In definitiva la lettura dei restauri del passato non chiarisce a fondo gli intendimenti dei singoli restauratori, ma è sufficiente a tracciare, su questi interventi, quasi una storia del gusto e dei criteri del restauro, e dei raggiungimenti tecnici del loro tempo.

1977: lo stato di conservazione

A un primo colpo d'occhio il dipinto si presentava scarsamente leggibile per un annerimento diffuso e uniforme. La superficie del dipinto, accidentata e rugosa, era coperta da polvere e ridipinture alterate, sovrapposte alle lacune e al colore originario, smagrito e tormentato.

All'interno del refettorio, la parete della Cena è quella che ha subito le maggiori manomissioni.

II problema che destava maggiore preoccupazione era di carattere statico: la spinta esercitata sulla parete dipinta dalla volta della sala ricostruita dopo le distruzioni belliche non era contrastata, essendo inoltre modificata la forza esercitata dai fabbricati adiacenti, manomessi nelle loro posizioni originarie.

Da qui il determinarsi di un grave stato fessurativo e la deformazione di una muratura insolitamente snella (la parete della Cena è alta 11 metri e larga soltanto 35-40 centimetri) e priva di una ammorsatura con la parete est, anch'essa ricostruita dopo la guerra. Lungo il bordo di giunzione delle due murature è infatti visibile un appariscente distacco e una crepa corre tuttora nell'angolo nord-est, dalla lunetta destra a quella centrale.

Sul tergo la parete della Cena evidenzia fenditure causate dalla migrazione di carichi trasmessi da movimenti della volta.

Non tutte le lesioni si ripercuotono sulla parte tergale della parete: alcune, di diverso percorso, interessano la sola facciata dipinta.

Dai problemi statici alle mutilazioni. L'allargamento della porta centrale della parete (circa 1652) comportò la distruzione della zona del dipinto con le gambe del Cristo e causò dissesti anche alla parte muraria. Forse chi ordinò l'intervento considerava la Cena irrimediabilmente compromessa, se non già perduta.

L'intonaco che fa da supporto al riquadro della Cena ha caratteristiche assai diverse da quello delle lunette: il primo è rugoso e di grossa granulometria, il secondo particolarmente levigato.

Vi si riscontrano modeste mancanze di adesione fra intonaco e supporto murario lungo i margini delle fenditure.

La superficie dipinta è attraversata da una ragnatela di fenditure verticali e diagonali che si manifestano con decisi segni neri dovuti all'assorbimento di polvere, giungendo quasi sempre alla preparazione o minando l'intero spessore dell'intonaco. In tratti più o meno lunghi coincidono con le crepe della struttura muraria, per poi interrompersi e riprendere con andamenti diversi. Il bombardamento del 1943 ne ha causato l'allargamento, come si evince dal confronto con le fotografie d'anteguerra.

Alcune fessure a sviluppo diagonale sono localizzate nella parte inferiore sinistra mentre al di sopra della porta una grande fenditura orizzontale attraversa con tratto discontinuo il busto del Cristo. Sul lato destro sono più numerose in prossimità delle lunette.

Numerosi piccoli fori provocati dall'inserimento di chiodi sono visibili su tutta la superficie.

La preparazione, disposta sopra l'intonaco con uno strato di circa 15 mm di spessore, si caratterizza per l'aspetto leggermente giallognolo dovuto soprattutto all'infiltrazione di varie materie di restauro. Di natura molto porosa, risulta particolarmente sensibile all'umidità, che ne favorisce il processo di decoesione facendone il "punto debole" del dipinto. I suoi difetti di adesione sono infatti i principali imputati della drammatica situazione conservativa del Cenacolo: la decoesione della materia si configura come uno stacco senza sollevamento, riscontrabile con l'assorbimento rapido di qualsiasi liquido applicato al colore. Si presenta percorsa da crettature createsi per un fenomeno di contrazioni che interessa tutta la struttura: più evidente in superficie, più contenuto in profondità. Si ritrova però in maglie più larghe nella parte alta dell'opera. La perdita di materia si manifesta in modo discontinuo: o cadute di frammenti da tutto lo spessore oppure cadute corrispondenti all'ultima applicazione dell'impasto.

Numerose, quindi, le cadute su tutta la superficie. Quelle più evidenti interessano la fascia superiore, dove la preparazione è stata stesa in un sottilissimo spessore sopra un intonaco particolarmente liscio che offriva scarso aggancio agli strati sovrapposti. Di grande interesse sono le cadute che formano quasi una fascia discontinua che attraversa orizzontalmente la parte destra del dipinto all'altezza delle figure: evidentissima nella figura di Giacomo dove l'abito è andato completamente perso.

L'imprimitura bianca, stesa su tutta la superficie tra la preparazione e il colore con uno spessore che varia da 10 a 30 micrometri, segue in genere le sorti della preparazione, affiorando lungo i margini delle scaglie. È particolarmente fragile e instabile e si caratterizzata per una craquelure finissima.

Considerazioni diverse devono essere fatte per il colore originale e per le ridipinture a questo sovrapposte. Già a distanza di pochi anni dalla data di esecuzione dell'Ultima Cena, il colore presentava considerevoli fenomeni di sollevamento e cadute.

A causa dell'azione dell'umidità, particelle di colore si staccarono dagli strati sottostanti sollevandosi e trascinando via, talora, imprimitura e preparazione. Le maggiori cadute si concentrano nelle parti scure del dipinto, cioè in zone in ombra, eseguite in genere con velature sovrapposte.

I tentativi di porvi rimedio non fecero che aggravare la situazione: i fenomeni di caduta finirono per essere generati anche dalla trazione che vari collanti e fissativi esercitavano sul colore originale e, soprattutto, sulle ridipinture.

Un'ulteriore e nefasta conseguenza dei tentativi di porre rimedio ai guasti dell'umidità è testimoniata dell'abate Gallarate: per asciugare la condensa e prevenire la caduta di colore venne esercitata su tutta la superficie pittorica, gonfia di umidità, una forte e discontinua pressione, anche a mezzo di ripetute stirature che provocarono dapprima affossamenti della pellicola pittorica e dell'imprimitura nella preparazione e successivamente, la loro caduta.

Ancora oggi si può constatare come queste scaglie di colore, staccandosi, abbiano lasciato l'impronta della loro forma.

I danni della compressione della pellicola con spatole e mezzi meccanici si manifestano con fratture in più punti delle scaglie di colore originale e in slittamenti di scaglie da un punto a un altro della superficie.

A forte ingrandimento si può notare come alcune scaglie si siano sovrapposte le une alle altre o spostate su colori di tonalità diverse, o posate su lacune. Altra conseguenza di queste sbrigative operazioni di consolidamento sono le abrasioni dei margini delle scaglie: il danno è visibile anche a occhio nudo e si individua per l'affiorare del bianco dell'imprimitura. Non tutte le abrasioni sono però di uguale entità. Talvolta interessano solo alcune velature senza compromettere la possibilità di ritrovare le sottostanti basi di colore; più spesso sono talmente estese da lasciare a vista la preparazione giallognola.

Nel suo insieme il dipinto è segnato da un reticolo complesso e irregolare di craquelures provocate da contrazioni della preparazione e divisibili in due tipologie: larghe e irregolari quelle che attraversano tutto lo strato pittorico, estremamente sottili quelle dell'imprimitura.

Solo Antonio de Beatis aveva attribuito, fin dal 1517, i danni del dipinto all'azione dell'umidità, dovuta in gran parte all'ubicazione della parete scelta da Leonardo, la cui tecnica pittorica, inoltre, si è rivelata particolarmente vulnerabile all'azione di questo agente atmosferico.

Un fattore ambientale dunque e uno tecnico, che vengono denunciati poi nel Seicento.

Una semplice ricognizione, inoltre, ha consentito di rilevare una quantità impensabile di sostanze sovrapposte alla superficie pittorica originale e insinuate negli interstizi delle scaglie di colore. Più evidente uno strato superficiale di polvere, dovuto anche ai recenti inquinamenti atmosferici, che aveva offuscato il dipinto al punto da renderlo nebuloso e illeggibile. Sotto la polvere, precedenti interventi di fissaggio avevano consolidato uno strato ancor più denso di sporcizia che, analizzato al microscopio, prendeva forma di deposito scuro nella zona centrale delle scaglie di colore.

La polvere, infiltratasi in profondità anche nelle craquelures o depositatasi in grossi spessori sui margini superiori delle zone di colore originale confinante con lacune, trascinata da fissativi e da solventi, segnava con evidenza il tracciato delle fenditure.

Le osservazioni al microscopio e le analisi compiute hanno inoltre accertato l'aggressione biologica della superficie pittorica ad opera di ife-micetiche di varia morfologia.

Le diverse materie usate per il fissaggio della superficie si presentavano con differenti spessori e alterazioni.

La gommalacca impiegata dal Pelliccioli nel dopoguerra era virata leggermente al giallo, senza però recar danno al colore, sovrapponendosi talora a residui di precedenti collanti che avevano esercitato un'azione di strappo nei confronti dei sottostanti frammenti di colore. Nella zona delle mani del Cristo si riscontrava la presenza di cera usata sia come fissativo sia come riempimento di lacune.

Numerosissime e disseminate ovunque le stuccature, stese sia nelle zone in cui mancava il colore sia, con funzione di fissaggio, lungo i margini delle particelle di colore pericolanti. Le più fitte concentrate sullo sfondo architettonico, le più evidenti in una larga zona dell'abito di Bartolomeo, dove si sono identificati fino a cinque strati sovrapposti di stucchi di diversi colori: nero, rosso, marrone, grigio e bianco. Un'altra appariscente stuccatura investiva la manica scura dell'abito di Matteo. Fra i numerosi interventi dei vari restauratori, l'unica stuccatura sicuramente identificabile è quella firmata dal Silvestri, che vi incise il proprio nome e la data: 1924.

Sotto i materiali depositati nelle lacune era possibile talora identificare la cromia originale, ma la lettura del dipinto nel suo insieme era estremamente difficoltosa perché le immagini apparivano appiattite dal sommarsi di materiali estranei, scuri, o comunque opachi che non rendevano più leggibili (ove si erano conservate) le variazioni di tono e di timbro con le quali Leonardo aveva rappresentato i volumi e scandito in profondità oggetti e figure. Mancando le trasparenze, le zone scure erano divenute opache e senza profondità, i contrasti cromatici attenuati se non annullati, il disegno privo di sensibilità e di cura del dettaglio.

Metodologia degli interventi

La conoscenza degli avvenimenti che hanno segnato la storia dell'opera e il supporto di esami mirati, eseguiti con diverse metodologie e in tempi anche lunghi, sono state le basi di partenza per affrontare il "problema Cenacolo". Esigenze primarie: un'analitica valutazione dello stato di conservazione del dipinto, che si presentava estremamente sofferto e disomogeneo; riconoscere la materia originale distinguendola da quella che si poteva percepire solo come il risultato delle innumerevoli sostanze di restauro stratificate nel tempo.

L'impostazione metodologica si fondava sulla complessa scelta di calibratura dell'intervento in base ai differenti livelli conservativi dell'opera, distinguendo in quali aree fosse necessario e corretto mantenere le ridipinture come testimonianze storiche di eventi significativi, in quali fosse possibile operare una pulitura parziale, in quali ancora fosse pensabile un sicuro recupero del colore originale. li risultato degli interventi doveva garantire, alla visione finale e nel totale rispetto per la materia originale, la restituzione tanto dei valori espressivi dei dettagli meglio conservati che dell'unità d'insieme dell'opera.

Interventi effettuati sul dipinto: adesione

Nel complesso programma di indagini conoscitive sullo stato di conservazione e sulla tecnica di esecuzione dell'opera, ha assunto un ruolo decisivo, soprattutto nelle fasi iniziali dell'intervento, l'ispezione dettagliata della superficie mediante osservazione al microscopio mineralogico; essa è stata seguita da alcuni limitati saggi di pulitura che hanno dato la possibilità di valutare l'incidenza di rifacimenti e delle numerose ridipinture sulla pellicola pittorica originale.

L'estensione di alcuni rifacimenti, connessi alla perdita del colore originale, si è immediatamente rivelata tale da escludere fin dall'inizio una loro possibile rimozione.

Molto più grave si mostrava invece la conservazione della pellicola pittorica a livello di adesione e coesione al supporto murario.

La superficie della pellicola pittorica, non più planare, era data dall'insieme di infinite piccole isole di colore che si erano deformate assumendo una conformazione concava, con i bordi sollevati là dove le sostanze sovrapposte – quali colle e vernici di antichi restauri – addensandosi avevano creato un'azione di trazione sulla superficie originale.

Primaria è quindi apparsa l'azione di controllo e documentazione riguardo a tutti i sollevamenti della pellicola pittorica, che si manifestavano concentrati nella zona superiore del dipinto.

Per l'adesione dei frammenti ci si è avvalsi dello stesso adesivo applicato dal Pelliccioli nel corso del restauro del 1945 riportato in soluzione durante la pulitura, ossia gommalacca decerata in alcool.

Rimozioni delle vernici di restauro e dei ritocchi alterati

La pellicola pittorica originale s'individuava a fatica, sepolta da numerose stratificazioni condensate in una specie di spessa pelle perlopiù composta da sostanze filmogene. I primi saggi di pulitura sono stati effettuati in zone dove si supponeva essere maggiormente presente il colore originale, ossia in corrispondenza della figura di Simone, verificando al microscopio l'azione del solvente.

La rimozione delle vernici e degli strati di ridipinture è avvenuta con modalità pressoché omogenee: il solvente, messo a punto dopo i test di prova, ha permesso un'azione controllata e diversificata in rapporto ai tempi di applicazione.

La miscela solvente è stata posta a contatto con la superficie tramite piccole porzioni di carta giapponese: le sostanze così solubilizzate venivano progressivamente asportate. A intervalli di tempo il trattamento era ripetuto anche più volte, fino al recupero della materia originale.

Successivamente, laddove per la particolare conformazione concava delle scaglie, si erano maggiormente accumulate le sostanze oleo-proteiche, si è fatto ricorso alla miscela applicata a punta di pennello, rifinendo poi meccanicamente.

Si potevano notare, durante l'operazione, ridipinture di consistenza differenziata: alcune facilmente solubili e asportabili, altre, appartenenti a più antichi interventi, oltremodo tenaci e invasive, alquanto difficili da rimuovere data la loro composizione a base di caseato di calcio. In molti casi, come sulle figure del Cristo, di Matteo o di Filippo, il colore di ridipinture del manto, applicato in zone lacunose, è stato in parte assorbito dalla preparazione, rendendo quindi impossibile l'asportazione totale delle tracce. Una notevole difficoltà hanno presentato i differenti materiali di fissaggio impiegati di volta in volta nei restauri che, o depositatisi lungo i margini delle lacune o nelle lacune stesse, avevano fissato strati di polvere che risultavano più tenaci delle stesse scaglie di colore cui aderivano; oppure alteravano vistosamente, per imbibizione, la cromia dello strato di preparazione, che appariva di colore giallo intenso. Infine sono stati rimossi meccanicamente sia lo strato di cera localizzato nella zona sottostante la figura del Cristo, sia gli innumerevoli stucchi che, debordando dalle lacune, risultavano molto tenaci in corrispondenza della pellicola pittorica originale. Le operazioni di pulitura hanno presentato maggiori difficoltà nella metà sinistra del dipinto, interessata da rifacimenti corposi e massicci, veri e propri 'beveroni' di adesivi organici e oleosi che ricoprivano la pellicola pittorica frammentata in piccole scaglie.

Molte le difficoltà: la riscoperta dell'originale, laddove rimasto, infragilito da interventi più spesso dannosi che riparatori, è stata conquista lenta e sofferta, centimetro per centimetro. Col procedere dei lavori apparivano evidenti situazioni di alternanza tra brani originali di alta tonalità cromatica e ridipinture spesso stratificate, imbrunite o ingiallite. Nonostante le difficoltà e i problemi, la pulitura ci ha restituito acquisizioni particolarmente importanti, uno stato d'opera emozionante soprattutto nei dettagli, con il recupero in molti casi della lettura dei volumi e di una intensità espressiva che si credevano irrimediabilmente e ovunque perduti.

Reintegrazione e protezione finale

II raggiungimento di un equilibrio nella lettura d'insieme, muovendosi da situazioni estremamente critiche, è stata impresa di grande difficoltà.

Da un punto di vista percettivo, le cadute di colore, le lacune, le irregolarità della superficie pittorica, l'evidenza dello strato giallognolo della preparazione e il bianco dell'intonaco a vista creavano una situazione problematica e complessa.

A un'integrazione, consistente in un abbassamento tonale "neutro" laddove si ha assenza della pellicola pittorica originale, tale da creare un ideale fondo cromatico omogeneo ai frammenti, è seguita una reintegrazione cromatica tesa a ristabilire un'unità sostanziale dell'immagine.

L'operazione, eseguita ad acquerello, è stata particolarmente ardua e delicata a causa del disomogeneo assorbimento della superficie che ha obbligato a effettuare ripetuti passaggi, graduandone man mano l'intensità.

Documentazione

Parte importante del programma di restauro, che si è avvalso di varie metodologie di indagine, è stata la realizzazione di una estesa campagna di documentazione grafica e fotografica, sia in bianco e nero sia in diapositive a colori, a testimonianza di un completo monitoraggio della superficie pittorica prima, durante e dopo l'intervento di restauro.

Ogni singola ripresa, eseguita in tempi diversi, considera una porzione di pittura nel suo insieme, suddividendola poi in parti e documentandone i dettagli con riprese a luce radente e, ove necessario, macrofotografie.

La documentazione grafica è stata realizzata con l'intento di registrare e sistematizzare il maggior numero possibile di informazioni sul dipinto evidenziandone quanto rimane di originale e quali e quanto gravi siano le offese e gli effetti del tempo.

Le informazioni acquisite sono state visualizzate su carte tematiche disegnate a partire dal rilievo eseguito, su fogli di acetato, direttamente sul dipinto. La mappatura così definita restituisce il contorno delle immagini, le ferite e i fori dovuti all'inserimento di chiodi, l'entità delle mancanze di preparazione-pellicola pittorica, gli intonaci rimasti direttamente in vista.

Tutti i lucidi sono stati quindi confrontati con riprese fotografiche e fatti oggetto di scansione, vettorizzazione ed elaborazione elettronica.

Ulteriori rilievi hanno documentato le numerosissime stuccature stese in tempi diversi nelle varie parti della Cena e le incisioni che determinano lo spazio pittorico dell'ambiente, costituendo così un prezioso documento per l'approfondimento della conoscenza della tecnica di esecuzione leonardesca.

Sulla base di numerose osservazioni raccolte durante tutto l'iter del restauro si è giunti anche a ipotesi di ricostruzione grafica di parti mancanti, di interesse non trascurabile per l'individuazione dell'originaria invenzione compositiva alterata dai numerosi interventi di restauro. In particolare le nostre ipotesi hanno riguardato il disegno e la cromia degli arazzi appesi alle pareti, la decorazione del tessuto della tovaglia, i diversi tipi di suppellettili e la loro disposizione sulla tavola imbandita.

Si è pure ricostruita l'originale soluzione prospettica che, partendo dal disegno dei cassettoni in cui è scandito il soffitto dell'ambiente della Cena, perviene a una proporzione della Sala diversa da quanto abbiamo sempre pensato basandoci su ridipinture che si sono rivelate arbitrarie e infedeli.

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