Una breve storia dei rilevamenti
Nel 1855 dal ciclo di Giotto nella Cappella Scrovegni cadde un pezzo di intonaco dipinto. La notizia fece immediatamente il giro del mondo culturale di allora e venne ripresa e amplificata dal Times di Londra, che lo portò ad esempio della trascuratezza e dell’abbandono in cui venivano lasciati nel nostro Paese i più eletti capolavori d’arte.
Nel 1855 dal ciclo di Giotto nella Cappella Scrovegni cadde un pezzo di intonaco dipinto. La notizia fece immediatamente il giro del mondo culturale di allora e venne ripresa e amplificata dal Times di Londra, che lo portò ad esempio della trascuratezza e dell’abbandono in cui venivano lasciati nel nostro Paese i più eletti capolavori d’arte.
Venne lanciato anche un appello per la salvezza dell’opera, prontamente raccolto dalla Arundel Society con l’intenzione di acquistare dagli ultimi proprietari della Cappella, i Gradenigo Foscari, l’edificio per staccarne gli affreschi e portarli a Londra.
Non a caso un anno dopo John Ruskin, che aveva fatto o tentato di fare da intermediario tra la Society e i proprietari, avrebbe dato alle stampe a Londra un volumetto (Giotto and his Works in Padua) il cui testo è corredato da copie delle parti più interessanti dei dipinti dell’Arena.
Allo stato delle conoscenze queste incisioni costituiscono il più antico esempio di documentazione non parziale del ciclo.
Qualche anno dopo, nel 1867, il ben noto fotografo naturalizzato veneziano Carlo Naya esegue una documentazione quasi completa della Cappella e dei dipinti, la prima del genere per quel monumento ed una delle prime in assoluto in Italia.
Quattro anni più tardi, nel 1871, il Comune di Padova, nell’ambito di una trattativa per l’acquisto della Cappella iniziata parecchi anni prima e conclusa positivamente solo 10 anni dopo, fece eseguire un esaustivo rilevamento ad acquerello della Cappella, delle sue decorazioni murali, delle sue suppellettili e dei suoi arredi a corredo di una perizia sullo stato di consistenza dell’immobile e delle sue attinenze (dimensioni, stato di conservazione, etc).
Nulla ci autorizza a pensare che il ricorso al rilevamento ed alla resa manuale fosse una conseguenza della scarsa considerazione che allora si aveva del mezzo fotografico come tecnica di documentazione, tanto più che la Commissione conservatrice dei Monumenti di Padova annoverava al suo interno studiosi comprensibilmente entusiasti del nuovo strumento come, per fare solo un paio di nomi, Giovan Battista Cavalcaselle e Pietro Selvatico.
Si trattava piuttosto (io credo) di una presa d’atto (del resto obbligata) dei limiti che allora presentava la tecnica fotografica, soprattutto in situazioni difficili quali quelle rappresentate dalle decorazioni murali, ma anche – e il fatto è di estrema importanza per la storia del restauro – di una chiara presa di coscienza delle particolari esigenze di una documentazione finalizzata alla definizione dello stato di conservazione di un’opera rispetto al compito tradizionale di “renderne al meglio” la bellezza.
Il complesso di disegni di Augusto Caratti e Luigi Toniolo (allegati alle 12 tavole con i rilevamenti architettonici della Cappella di Gabriele Benvenisti, Vincenzo Grasselli e Barnaba Lava) costituiscono non so se il primo, ma certamente uno dei più antichi esempi di quella che oggi siamo soliti chiamare “mappatura grafica” dello stato di fatto di un’opera, in questo caso sia il contenitore che il “contenuto” (da qui la presenza di ingegneri civili e pittori-intenditori d’arte).
L’impiego del colore rendeva più accessibile anche ai non addetti ai lavori non solo e non tanto la qualità dell’opera (in questo caso fuori discussione) ma soprattutto quei fenomeni di degrado a carico del colore che la documentazione fotografica in bianco e nero non avrebbe potuto rendere adeguatamente .
Con questo non intendo assolutamente dire che le copie a mano a colori siano più “fedeli” delle foto: che anzi il sospetto di un intervento magari involontariamente “arbitrario” del copista ritorna abbastanza spesso.
E al proposito riterrei superfluo richiamare l’attenzione sul fatto che il valore documentario di qualsiasi “prodotto” va attentamente verificato con tutti i mezzi a disposizione, anche quando lo strumento usato fosse considerato “oggettivamente attendibile”, come comunemente si pensa della fotografia.
Mi si dirà che ormai nessuno più si illude sulla “oggettività” del mezzo fotografico e che anche il ricorso da parte dei fotografi a tecniche di manomissione (ritocchi delle lastre o dei negativi, etc.) non è più da un pezzo un segreto per nessuno.
Del resto personalmente avevo dovuto farne esperienza abbastanza presto quando, alla fine degli anni ’70, avevo cercato di ricostruire la storia conservativa del ciclo pittorico medievale del portico di S. Lorenzo fuori le mura a Roma e, soprattutto, qualche anno dopo, provandomi a fare la stessa cosa per le decorazioni murali delle sale di Palazzo Te a Mantova.
Fu in quella occasione che ebbi modo di controllare le lastre Naya e di “toccare con mano” quanto ampiamente (anche se del tutto involontariamente) la prassi (generalmente non fraudolenta) di “correggere” i supporti impressionati abbia potuto influire sulla scarsa sensibilità dell’opinione pubblica, anche di quella colta, nei confronti del degrado cui sono sottoposti monumenti e opere d’arte .
Apprestandomi a preparare l’intervento di restauro sul ciclo pittorico di Giotto nella Cappella Scrovegni ho potuto profittare ancora una volta della generosa disponibilità dei titolari dello Studio Boehm, erede di Naya, per potere controllare una per una le lastre in loro possesso.
Debbo dire che in questo caso c’era un motivo in più a stimolarmi in quella verifica.
Mi aveva colpito molto, da sempre, l’avere visto riprodotta una foto Naya della Resurrezione di Lazzaro con una curiosa griglia a maglia quadrata, che in corrispondenza della testa del Cristo e nella parte bassa del riquadro viene suddivisa in due in senso orizzontale e pertanto diviene rettangolare.
Non mi convinceva l’intrepretazione, che se ne dava, di “quadrettatura” perché, al di là di questa o altre piccole anomalie, che la pessima qualità della riproduzione a stampa lasciava intuire più che rilevare, non mi risultava che questa tecnica di trasposizione (“riporto”) del disegno su muro fosse conosciuta da Giotto.
Una prima ricognizione del riquadro nel 1990, in occasione della prima campagna di controllo e documentazione delle condizioni dei dipinti effettuata dall’ICR , non aveva dato risultati positivi ma, stanti le condizioni della superficie pittorica di quella zona, una delle più tormentate dell’intero ciclo, ritenni più utile, in ossequio al principio della inopportunità di nuove ipotesi in assenza di elementi di giudizio nuovi, di rinviare la questione al momento dell’intervento di restauro, limitandomi ad osservare che, se mai, avrebbe potuto trattarsi dei segni eseguiti da calcatori poco coscienziosi (magari quando ancora la Cappella era di proprietà privata), poi rimossi in occasione del primo intervento di restauro di cui si abbia notizia, quello iniziato da Guglielmo Botti e condotto a termine da Antonio Bertolli a fine Ottocento.
Ma quando finalmente, 3 anni fa, si potè procedere alla rimozione dei ritocchi e dei prodotti di protezione che avevano alterato la superficie, della “griglia” neppure l’ombra, nonostante “l’accanimento diagnostico” oltre che visivo cui la zona venne sottoposta.
Il “mistero” potè essere risolto proprio grazie alla possibilità di controllare la lastra, sulla quale in epoca imprecisata era stata segnata la “griglia” .
Ma che in queste situazioni bisogna stare sempre molto attenti lo dimostra un caso recentissimo, che mi piace riportare proprio perché parrebbe fatto apposta per indurre in errore del tutto in buona fede.
Chi infatti volesse giudicare dell’esito del recente intervento di restauro al ciclo Scrovegni alla luce della documentazione fotografica prodotta e pubblicata non avrebbe che l’imbarazzo della scelta: dai volumi specialistici o di larga diffusione editi da note case editrici a riviste di ogni tipo, nazionali, internazionali, locali.
Proprio sfogliando una di queste mentre, all’interno della Cappella, attendevo il completamento del montaggio dello speciale meccanismo che consente di introdurre un piccolo “ragno” per il controllo dei dipinti, l’occhio mi si ferma su una foto della Vergine Annunziata, la cui parte sinistra appariva stranamente sbiancata.
Alla ricognizione del novembre 2003, la prima dopo il restauro, non era stato notato alcun segno di alterazione, ma nel corso di un anno forse qualcosa era cambiato.
Dal basso, per quanto cercassi di indagare aiutandomi con un binocolo, non appariva nulla di anomalo, ma si sa che nessun giudizio serio può fondarsi su osservazioni a distanza.
Quando però neppure da vicino e nonostante il ricorso a idonei sussidi tecnologico-scientifici si riuscì a rintracciare la presunta alterazione, per fortuna ci venne in aiuto (e ci risollevò) l’interpretazione tecnica del fotografo ICR Angelo Rubino: per ottenere un maggior contrasto nei colori erano stati saturati eccessivamente i grigi e questa operazione aveva dato come effetto lo sbiancamento di una zona dell’immagine riprodotta.
Giuseppe Basile
Per la verità anche oggi riesce più difficile fotografare opere generalmente di grande estensione, spesso su superfici curve, a distanza e illuminazione naturale obbligate, piuttosto che opere da cavalletto o comunque mobili e di dimensioni limitate.
Come è noto ciò riguarda sia i documenti visivi più antichi (disegni, acquarelli, incisioni: cfr. G. Basile-M.Paris-G. Serangeli, Il restauro degli affreschi del portico di San Lorenzo fuori le mura a Roma, in Arte Medievale, II,2 /’88, 205-242) che le fotografie.
Come del resto succede anche ora, nonostante i progressi enormi fatti da allora dalla foto in bianco e nero. Quasi superfluo ricordare come il ricorso all’acquarello per copiare le opere d’arte fosse allora diffusissimo (basterà citare al riguardo l’opera del Wilpert). Notizie sulla documentazione storica visiva della Cappella possono trovarsi nel catalogo della mostra Giotto et l’art à Padoue au XIV° siècle: la Chapelle des Scrovegni, Bruxelles, 2003
Il fenomeno, ben noto, è quello di utilizzare la stessa foto anche a distanza di anni o decenni, senza però preoccuparsi di renderne nota la datazione, che ai fini della conoscenza dell’opera non ha rilevanza alcuna, a meno che essa non sia stata interessata da un intervento di restauro che ne abbia esaltato le qualità. Così, per rimanere in tema (ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi quasi illimitatamente), è potuto succedere che nell’opinione comune ed anche in quella di non pochi specialisti il ciclo giottesco non presentasse problemi di conservazione per il semplice fatto che anche le nuove pubblicazioni continuavano ad utilizzare le foto eseguite da Alinari, Scala e quant’altri subito dopo il restauro operato agli inizi degli Anni ’60 da Leonetto Tintori.
Voglio profittare ancora una volta dell’occasione per ringraziare lo Studio Boehm, che con grande generosità mise a mia disposizione le lastre di Palazzo Te tirandone anche stampe di grande formato quando ancora (1984) non era stato attivato il relativo servizio al pubblico e che, più recentemente, con altrettanta generosità mi diede in prestito le lastre Scrovegni per farne fare copia su pellicola, in modo da dotarne di una copia l’archivio fotografico dell’Istituto ad usi puramente di studio e da fornire l’altra copia allo Studio per le normali attività di stampa, in modo da non essere costretti a ricorrere alle preziose lastre tutte le volte che verrà fatta richiesta delle relative stampe.
Come è noto tali campagne ebbero luogo dal 1988 al 1993 ed ebbero anche carattere operativo in quanto furono eseguiti interventi conservativi d’urgenza soprattutto sul colore che rischiava di polverizzarsi e cadere. Nel corso degli anni successivi e fino all’ultimazione degli interventi a carattere ambientale e architettonico furono effettuati sistematicamente interventi mirati di controllo e di conservazione urgente. Cfr. al proposito: Il restauro della Cappella Scrovegni: indagini, progetto, risultati , Milano, 2003
Al momento non se ne conosce né la data, né l’autore, né lo scopo, anche se ha tutta l’aria di una ipotesi di scansione spaziale del riquadro: sarebbe davvero interessante saperne di più.