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Lampedusa, chi ha paura del museo delle migrazioni?
Articolo pubblicato il 24 settembre 2012 su articolo21.org
Torna la luce a San Domenico, capolavoro del manierismo siciliano
da http://www.castelvetranoselinunte.it/
Torna la luce a San Domenico, capolavoro del manierismo siciliano.
Diverse autorità e moltissimi visitatori per la cerimonia di riapertura della Chiesa di San Domenico in Castelvetrano, appartenente al fondo Fec del Ministero dell’Interno.
Nel ’68, a seguito delle scosse del terremoto che sconquassarono la Valle del Belice, fu chiusa al culto. E chi lo ricorda, proprio l’anno del sisma fu l’ultimo durante il quale si poterono ammirare quei capolavori nell’abside per via dei quali è stata più volte definita come la “Cappella Sistina di Sicilia”.
Da oggi, sarà possibile ammirare, col naso all’insù, un’opera davvero originale che il Ferraro realizzò come capostipite di una illustre famiglia di stuccatori e pittori insediatisi per generazioni a Castelvetrano. L’artista fu chiamato a Castelvetrano da don Carlo d’Aragona “Magnus Siculus” (presidente del Regno (1566-68/1571-77) che, probabilmente, ne aveva ammirato i lavori ultimati nella Cattedrale di Palermo nel 1574.
Ci sono voluti cinque anni e l’impegno dell’architetto Gaspare Bianco della Soprintendenza ai beni culturali di Trapani affinché si restaurassero stucchi e marmi dell’apparato decorativo del presbiterio e liberare quei capolavori da ponteggi come gabbie.
Il restauro ha costituito un’irrinunciabile opportunità di studio delle tecniche artistiche caratterizzanti questa misconosciuta bottega di “cesellatori siciliani” dello stucco – spiega Bianco – e una straordinaria occasione per un approfondimento e una appassionata ricerca sull’iconografia cristiana e sul valore della forza comunicativa delle immagini.
Un inedito del 1984 del prof. Giuseppe Basile sulla destinazione della Chiesa di San Domenico di Castelvetrano
da http://www.giornalekleos.it
CASTELVETRANO – Lo ha fornito a GiornaleKLEOS l’ing. Giuseppe Taddeo, cognato dell’illustre studioso, che qui ringraziamo.
CASTELVETRANO – L’ing. Giuseppe Taddeo ci ha inviato questo interessante documento (che volentieri qui pubblichiamo), un inedito (con proprietà letteraria riservata) del 1984 del prof. Giuseppe Basile che interviene sulla destinazione della Chiesa di San Domenico.
Qui di seguito pubblichiamo il testo della lettera con cui l’ing. Giuseppe Taddeo, cognato dell’illustre studioso, ci invia l’inedito del prof. Basile.
“Il sogno si avvera: giorno sette febbraio inaugurazione ed apertura ufficiale della Chiesa di San Domenico, una delle più alte espressioni del manierismo Siciliano, denominata “la Cappella Sistina di Sicilia”, così presenta l’evento il direttore dei lavori del restauro, Arch. Gaspare Bianco.
Eravamo giovani quando sollevammo le prime proteste: cotanto splendore non poteva e non doveva rimanere nell’oblio.
Ma ora che ci siamo, dopo tanta attesa, è altrettanto lecito interrogarsi sul futuro di questo gioiello.
Bene; già nel lontano 1984, però, all’indomani del primo intervento di recupero dopo i danneggiamenti causati dal sisma che ne determinarono la chiusura, il compianto Prof. Giuseppe Basile, illustre nostro concittadino, storico dell’arte famoso nel mondo per il restauro della Chiesa di San Francesco d’Assisi e della Cappella degli Scrovegni a Padova -per citare solo alcune delle sue più grandi realizzazioni- ritenendo prossima (ahimé) la riapertura, forniva delle indicazioni e preconizzava l’attuale problema: destinazione della Chiesa.
A distanza di tanto tempo, si ritiene utile riproporre le riflessioni del Prof. Basile, che servano da tesoro per le decisioni da assumere in merito”.
- L’INEDITO DEL PROF. GIUSEPPE BASILE
“Chiedersi che cosa fare di S. Domenico, a che uso destinarlo, sembra quasi superfluo. I1 monumento ha infatti come nessun altro nella nostra città i requisiti per essere considerato un museo in se stesso. A cominciare dalla decorazione architettonica (stucchi ed affreschi) fino alle opere non connesse strutturalmente all’architettura e che, in termini di tutela del patrimonio culturale, si suol chiamare “mobili”: quadri, statue, monumenti funerari, stalli corali e così via.
Per di più corrispondono quasi tutte al periodo di maggiore splendore della casata feudale, i Tagliavia, che la chiesa avevano scelto a mauso¬leo della famiglia.
Cosicché dalla fine del ‘400 ai primi decenni del sec. XVII é tutta una sequenza di opere di notevole interesse che mostrano come i signori di Castelvetrano mirassero ad abbellire la loro chiesa servendosi di artisti della più varia provenienza ma sempre scelti fra coloro che davano comunque garanzie di conoscere bene il mestiere. Ed ecco allora la statua in marmo della Madonna di Loreto eseguita nel 1489 per il barone Giovanni Antonio Tagliavia, attribuita da più di uno studioso al grande artista dàlmata Francesco Laurana, certamente il più stimolante ed affascinane fra gli scultori allora operanti in Sicilia; e poi il dipinto su tavola raffigurante S. Vincenzo Ferreri, del 1525 circa, riferito allo spagnolo Antonello Benavides e già esposto, nel 1953, alla mostra su Antonello da Messina; il monumento sepolcrale in marmo, con figura del giacente, di Ferdinando d’Aragona Tagliavia, morto nel I549; la grande copia su tavola della Caduta sulla via del Calvario di Raffaello, eseguita dal cremonese Giovan Paolo Fondulli nel I574: l’urbinate l’aveva dipinto per la chiesa palermitana di S. Maria dello Spasimo (e pertanto generalmente chiamata “Spasimo di Sicilia”) ed era stata poi venduta a Filippo IV di Spagna, dove tuttora sì può ammirare al museo del Prado.
Del medesimo artista, che lavorò a lungo in Sicilia dopo il trasferimento da Cremona, e degli stessi anni sono due dipinti anch’essi su tavola raffiguranti S. Francesco di Paola con storie della sua vita (attribuito) e una Sacra Famiglia e santi (firmata e datata 1573) portati nel 1948 al Palazzo vescovile di Mazara del Vallo (assieme ad una notevole copia su tela del S. Michele Arcangelo di Guido Reni). Tra il 1574 e il 1577 Antonino Ferraro da Giuliana decora con stucchi e affreschi la cappella del coro e dal ‘77 all’80’ il cappellone: una folla esuberante di figure a tutto tondo e di scene a rilievo o dipinte, rife¬rentesi ai misteri dell’Incarnazione. Nello stesso torno di tempo l’olan¬dese Simone di Wobreck esegue un interessantissimo dipinto su tavola con la Circoncisione, ospitato in una magnifica cornice di legno dorato e dipinto, essa stessa opera di raffinata abilità artigianale (datata 1580). Tra la fine del sec. XVI e gli inizi del successivo si pongono il grande crocifisso in legno nella prima cappella destra, la tela di Bartolomeo Navar¬retta raffigurante la Vergine che appare a S. Giacinto (1602) recuperata dopo il terremoto in condizioni disastrose anche perché collocata in modo da essere difficilmente amovibile, la tela del trapanese Vito Carrera con S. Raimondo di Pennafort, le due tele di Orazio Ferraro (figlio di Antonino) rappresentanti l’Adorazione dei Magi e l’Orazione nell’orto ed una terza, la Madonna del Rosario, trafugata non molto tempo fa.
Se si aggiungono la tomba gentilizia degli Aragona-Tagliavia nella cappella del coro, il monumento funerario degli stessi nella cappelletta a destra del cappellone, gli stalli corali, l’altare maggiore, l’organo, il pulpito, i frammenti di pavimento maiolicato, qualche altro manufatto di minore importanza, credo ce ne sia a sufficienza per giustificare una utilizzazione della chiesa come museo.
Si aggiunga che la condizione giuridica del monumento, appartenente al Fondo per il Culto, lo consentirebbe e, soprattutto, che la vicinanza di una chiesa come quella parrocchiale dedicata al Santo Patrono rende insussistenti quei problemi di decultualizzazione che pure in altri casi fanno diventare problematica la scelta, per le difficoltà a tutti note di far coesistere delle esigenze di fruibilità, senza le quali un museo nega se stesso, con le altrettanto inderogabili necessità del culto.
Nel caso del S. Domenico questi problemi non ci sono, ed é già un fatto positivo.
Per fare un museo però non basta disporre di un edificio, pur se monumentale e di indubbio interesse storico, e di una serie di opere anch’esse di riconosciuto livello artistico che di quell’edificio completano la fisionomia decorativa così come essa si é andata stratificando nei secoli. Non basta, per venire al caso specifico, portare a termine come pure è vivamente auguratile e necessario, il restauro dell’edificio e delle sue decorazioni, fisse o amovibili che siano; non basta ricollocare al loro posto la statua e i dipinti che in questi anni la Soprintendenza ai beni artistici e storici di Palermo, per il personale interessamento del Prof. Scuderi, é andata restaurando, rendendoli ben visibili con adeguata illuminazione; né infine basterà -come pure é indispensabile- dotare la chiesa museo di tutti quegli impianti di sicurezza che servano a prevenire i danni accidentali (tipo incendi) e a rendere se non impossibili almeno non facili quelli volontari (danneggiamenti, furti, etc.).
Bisognerà infatti porsi il problema della gestione del museo e dei costi conseguenti, che vanno da quelli di puro mantenimento delle condizioni di sopravvivenza e di sicurezza del contenitore e delle opere esposte, fino a quelli derivanti dalla funzione culturale e sociale del museo. E già i primi, da soli, comportano certamente oneri non indifferenti, a cominciare dalla manutenzione dell’edificio e delle opere, che deve essere tempestiva e continua, se non si vuole che fra qualche anno si debba di nuovo temere per la perdita del monumento; ci sono poi le spese di manutenzione e funzionamento degli impianti (antincendio, antifurto) e quelle del perso¬nale di custodia, che in un museo deve essere presente sia durante le ore di apertura che in quelle in cui l’edificio é chiuso al pubblico; e infine, le spese in virtù delle quali un museo non é soltanto un edificio con opere da vedere, ma un centro di attività culturale: al quale fine però, bisogna riconoscerlo, prioritarie sono la coscienza dell’utilità sociale del museo e la disponibilità di energie e competenze umane. Voglio dire insomma che, anche nel caso di un museo, si pone il problema di valutare la convenienza “economica” dell’iniziativa, non nel senso più rozzamente utilitaristico del ricavo immediato e spicciolo, non essendo i beni culturali per loro natura beni di consumo ed essendo anzi per definizione beni irripetibili, ma nel senso più ampio e serio di un utile complessivo che alla comunità cui quei beni appartengono certamente ne viene. Un utile, é bene chiarire, indirettamente anche monetario, se li si usa con prudenza e si tiene conto che, sebbene “eterni”, sono costituiti pur sempre di materiali estremamente deperibili.
Il problema della convenienza economica diviene allora concretamente, nel caso in questione, quello di utilizzare al meglio -cioè con il massimo di risultati e il minimo di dispendio- l’edificio monumentale, date anche le sue notevolissime dimensioni.
Si tratterebbe in pratica di ospitarvi il museo civico, o meglio la parte non archeologica di esso, e in particolare la Madonna con Bambino laura¬nesca, in marmo alabastrino; ma vi si dovrebbero aggiungere tutte quelle opere, alcune di pregio, rimosse da chiese cittadine terremotate, attualmente ospitate in sedi non proprie e con ogni probabilità destinate a non tor¬nare nelle loro collocazioni abituali; nonché quelle la cui presenza non é indispensabile al culto o che sarebbero comunque meglio tutelate in un museo; infine, tutte quelle opere che chiese, confraternite, rettori o privati proprietari volessero affidare al museo, sotto forma di cessione ovvero di deposito permanente o temporaneo.
Ne risulterebbe un museo cittadino di notevole interesse, dotato di una duplice capacità di attrazione, per l’edificio con le sue decorazioni e la sua suppellettile e per le opere in esso raccolte.
Mi accorgo di riproporre ora quanto avevo auspicato parecchi anni fa, riducendo certo la portata del progetto ma anche fondandolo – mi auguro- su più concrete speranze. Infatti l’idea di utilizzare la chiesa e l’ex convento, un volta restaurati, come struttura accentrata per ospitarvi le istituzioni culturali cittadine (spazi per attività culturali, per esposizioni, auditorio, archivio, biblioteca, museo civico, eventuale deposito attrezzato per le opere recuperate nei paesi terremotati e allora raccolte nei magazzini della Soprintendenza) tanto da costituire polo privi¬legiato di un circuito di visita culturale che da Selinunte doveva giungere alla chiesa normanna della Trinità, e resa chiaramente inattuale da quanto si é andato realizzando da allora ad oggi: la biblioteca ha trovato sede nell’ex convento degli Agostiniani, l’audi¬torio nella chiesa del Purgatorio; inoltre è ritornato agibile dopo moltissimi anni di chiusura il teatro Selinus, restaurato.
Quanto al museo, la situazione mi pare tutt’altro che risolta: destinare un ambiente all’interno di un complesso adibito a biblioteca (il locale costruito per accogliere l’Efebo di Selinunte, che però dovrebbe anche costituire il “pezzo forte” del nuovo Antiquarium selinuntino ….) per rispondere a quella che é diventata in questi ultimi anni una esi¬genza sempre più diffusa mi pare francamente inadeguato. Non si possono mettere assieme, nello stesso ambiente, reperti archeologici, opere medievali, moderne, paesaggi del Pardo, cimeli risorgimentali e non so cos’altro. Raccogliere e conservare in pubbliche istituzioni, per sottrarlo alla distruzione o alla dispersione, quanto era rimasto a testimonianza del passato, che un secolo fa era il massimo che si potesse chiedere alla cultura e all’impegno civico dell’epoca, oggi non é più sufficiente, anche se -chiarisco subito- rimane sempre un compito fondamentale di ogni cultura salvaguardistica.
Perché non pensare, ad esempio, ad utilizzare quello spazio per ordinarvi un piccolo ma didatticamente utilissimo museo archeologico, che faccia perno sui reperti disponibili, peraltro di numero e importanza tutt’altro che trascurabile, ma integrati da materiale documentario sì da offrire al visitatore comune gli strumenti elementari per capire l’arte e la civil¬tà selinuntina ?
Quanto alla chiesa di S. Domenico, una utilizzazione come museo cittadino di arte medievale e moderna a soggetto religioso mi pare, allo stato attuale, la più opportuna e, vorrei dire, la più spontanea. In certo senso, anche la più realistica, se si pensa che buona parte del restauro dell’edi¬ficio é ormai fatto e che negli anni posteriori al sisma, con rara lungi¬miranza, la Soprintendenza ai beni artistici e storici ha restaurato prati¬camente tutte le opere che dovrebbero, secondo la presente proposta, trovarvi posto.
Certo i tanti anni trascorsi da quando é iniziata la mobilitazione della più responsabile coscienza cittadina per sottrarre il monumento già gravemente degradato alla dimenticanza e di conseguenza all’abbandono che spesso prelude alla rovina, non permettono eccessivi ottimismi; perciò la costituzione di un Comitato che si impegni a continuare il discorso e a tener viva l’attenzione sul S. Domenico mi pare senz’altro necessaria e sicuramente positiva: un segno concreto, anzi, di come un certo ragionato ottimismo sia possibile ed utile, oggi, coltivarlo”. Giuseppe Basile 15.12.1984