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La gestione dei monumenti a rischio come prevenzione del degrado: la Cappella Scrovegni di Giotto e il Cenacolo di Leonardo

Inserito in Scritti

Valladolid - ARPA 2008
di Giuseppe Basile 

La storia più recente della Cappella Scrovegni rappresenta – al di là dell’importanza del monumento – un’esperienza di grande interesse anche sotto l’aspetto più specifico dell’iter procedurale a carattere strettamente tecnico (quindi non amministrativo etc.). 

Nel 1982 vedeva la luce il volume  Giotto a Padova, destinato a segnare una svolta fondamentale rispetto al modo tradizionale di intendere e fare  restauro.

Un modo che agli occhi di Giovanni Urbani, allora direttore dell’Istituto centrale del restauro e coordinatore dell’operazione per incarico ministeriale, appariva assai simile ad una inutile se non controproducente “liturgia”, dato che consisteva spesso nella  ripetizione sostanzialmente acritica di operazioni a carattere artigianale sul manufatto degradato.

Naturalmente non è tanto sulla qualità della prestazione o sulle tecniche e i materiali impiegati nell’intervento che gli interessava focalizzare la sua attenzione, quanto piuttosto sull’approccio iniziale – con la conseguenza che se questo è insufficiente o errato allora anche un intervento condotto sul manufatto a perfetta regola d’arte  potrà non avere i risultati sperati, anzi potrà addirittura sortire effetti  controproducenti.

E proprio questo era accaduto al ciclo di Giotto in seguito all’intervento di Leonetto Tintori (1958 e 1961-63): un intervento condotto in modo corretto ma con un approccio sbagliato, perchè i responsabili dell’intervento non avevano tenuto conto del rapporto di interazione manufatto-ambiente, certamente nella illusione ( ancora oggi mai definitivamente sconfitta) che bastasse sostituire alle tecniche ed ai materiali tradizionali i nuovi prodotti tecnologicamente avanzati per aggirare il problema.

Non c’è dubbio infatti che l’impiego di prodotti sintetici mai prima di allora sperimentati nel campo della conservazione delle opere d’arte avrebbe avuto comunque degli effetti deleteri, ma è altrettanto vero che le conseguenze di quell’errore sarebbero state meno disastrose se si fosse dedicata all’ambiente  la dovuta attenzione prima di iniziare il restauro dei dipinti o, almeno, controllandolo una volta effettuato il restauro (come anche il restauratore, purtroppo inutilmente, era andato sollecitando).

Questo diverso approccio si fonda su pochi, fondamentali principi.

il primo consiste nel cercare di individuare attraverso un insieme di indagini, esami e analisi scientifiche specificamente mirate quali siano le cause del degrado o dei danni che si riscontrano sul manufatto allo scopo di rimuoverle o quanto meno ridurne la capacità offensiva; 

il secondo consiste nel mettere in  opera preventivamente gli interventi che hanno lo scopo di fare ritornare idoneo l’ambiente con cui il manufatto interagisce – e fermo restando che gli interventi sul manufatto potranno essere realizzati soltanto dopo che tale situazione sarà stata verificata attraverso controlli strumentali;

il terzo consiste nel fare in modo che tali interventi vengano messi in opera   non solo in maniera progressiva, cioè partendo dai più elementari per arrivare ai più complessi, ma anche senza nessun automatismo o sequenza obbligata: quindi, ricorrendo a quelli più complessi (che, generalmente, sono anche i più dispendiosi e i più a rischio) solo quando gli altri si sono dimostrati palesemente insufficienti .

Nel caso specifico della Cappella si cominciò con i seguenti provvedimenti:  

-         schermatura delle vetrate a protezione dai raggi IR e UV

sostituzione delle lampade a incandescenza con lampade a luce fredda per impedire l’effetto vortice che spingeva polveri e inquinanti sulle pareti dipinte 

 monitoraggio in continuo dei parametri microclimatici e di qualità dell’aria.

Si proseguì poi con la messa in opera degli interventi di risanamento dell’edificio e del suo ambito geologico (la revisione del tetto, la coibentazione dei paramenti murari esterni, il riassetto delle condizioni idrogeologiche), riservando a fine percorso la messa in opera degli interventi più nuovi e caratterizzanti di tipo ambientale: 

limitazione del numero dei visitatori ammessi di volta in volta all’interno della Cappella 

costruzione di un vano multiuso (Corpo Tecnologico Attrezzato – CTA) in funzione di filtro   tra l’esterno e l’interno dell’edificio 

Consistente in una struttura di acciaio e vetro, suddivisa in 3 ambienti muniti di porte automatiche interbloccate ( zona di ingresso-attesa, tunnel d’ingresso- uscita alla Cappella come zona-filtro, zona di deflusso verso l’esterno), venne messo in opera dopo avere chiuso il portone della facciata (fino ad allora unica via di accesso all’interno) e, conseguentemente, avere riaperto l’ingresso laterale in fondo alla parete sinistra, tamponato per motivi di sicurezza in seguito alla demolizione del Palazzo Scrovegni nel 1824, ma che era l’ingresso abituale dei proprietari, mentre il portone veniva aperto una sola volta all’anno per consentire l’ingresso del popolo in occasione della festività della Annunciazione.

La costruzione di questa sorta di “protesi tecnologica”, utile anche per regolare il traffico dei visitatori in entrata ed in uscita e per consentire una informazione rapida in attesa di visitare il ciclo di Giotto (informazioni più approfondite vengono invece fornite nella vicina “cappella virtuale”, centro informativo multimediale sull’opera e sul restauro) si rendeva necessaria in quanto, venuto a mancare il Palazzo, non esistevano vani contigui alla Cappella.

A confronto con una linea di sviluppo così coerente e rigorosa come quella enunciata da Urbani la vicenda ventennale dell’intervento conservativo sulla Cappella presenta tutte le caratteristiche di un’esperienza pioneristica, anche se poi alcuni suoi aspetti hanno finito con l’imporsi assai prima che l’esperienza stessa giungesse a buon fine: per esempio, il sistema di “filtro” per l’Ultima Cena di Leonardo fu realizzato ( sempre su progetto e con direzione tecnico-scientifica ICR, rappresentato da chi vi parla) nel 1995, cinque anni prima che nella Cappella, sebbene gli studi e le verifiche in tal senso fossero iniziate non prima del 1988, cioè da quando l’Istituto fu incaricato di coordinare e supervisionare i lavori avviati da un decennio su quell’opera.

I motivi vanno ricercati, senza dubbio, nella interferenza di difficoltà esterne alle problematiche più squisitamente tecniche e scientifiche ma anche, se non soprattutto, in resistenze di natura culturale.

Non si potrebbe spiegare diversamente la lentezza con la quale la “Commissione interdisciplinare per il restauro della Cappella Scrovegni” giunse finalmente ad accettare l’idea della necessità di regolamentare  l’accesso dei visitatori e di creare un filtro capace di ridurre al minimo gli “scambi di materia” (nel caso in questione umidità, polveri, inquinanti), cioè proprio quegli elementi che avevano attivato ed ancora continuavano ad alimentare quel gravissimo processo di degrado (solfatazione) consistente nella trasformazione in gesso della calce costitutiva dell’intonaco e nella conseguente polverizzazione (almeno come risultato finale) dei dipinti murali di Giotto.

Naturalmente non poteva esserci difficoltà nel capire la necessità di un simile provvedimento, ma destava preoccupazione il modo in cui sarebbe stato realizzato il “filtro”.

L’aspettativa più diffusa era che si potesse configurare in una bussola o comunque in un qualcosa che non fuoruscisse dalla Cappella, in modo da evitare qualsiasi problema di impatto visivo nei confronti dell’edificio stesso. 

Preso atto che una bussola non avrebbe mai potuto espletare quella funzione si pose il problema di quale aspetto avrebbe dovuto avere il CTA per riuscire più accettabile e si ritenne che la maniera migliore fosse quella di realizzare un prefabbricato, che desse il senso della sperimentalità e quindi della provvisorietà della soluzione (teoricamente, se il sistema non avesse funzionato, il CTA avrebbe dovuto essere rimosso e si sarebbe dovuto trovare un’altra soluzione), in posizione arretrata rispetto alla facciata della Cappella (addirittura con un albero che lo seminasconde allo sguardo), impiegando  per di più materiali trasparenti, in modo da ridurre otticamente l’ingombro.

Per la verità sarebbero risultate più funzionali pareti opache, non solo perchè avrebbero eliminato le interferenze della luce esterna e garantito risparmi energetici in virtù della loro maggiore coibentazione ma soprattutto perchè avrebbero potuto “intrappolare” gli inquinanti se solo si fosse potuto stendere la calce sulle pareti.

Rinunciarvi non ha comportato una grave limitazione nella funzionalità del sistema, dato che si è potuto sostituire tale prestazione “passiva” con un impianto attivo di abbattimento delle polveri e degli inquinanti.

Del resto l’originaria opzione integralmente “passiva” dell’intero sistema ( alla luce della convinzione che è preferibile correggere e ottimizzare le risorse interne di un sistema piuttosto che intervenire in maniera drastica modificando situazioni sostanzialmente stabilizzate da secoli) ha dovuto subire un altro aggiustamento quando si è constatato – dati strumentali alla mano – che in quelle condizioni non si sarebbero potuti fare entrare più di 8 visitatori per volta, invece dei 25 previsti (e poi effettivamente ammessi, ma previa installazione di un sistema di ricambio dell’aria).

Le cose sono andate invece diversamente a proposito di un altro problema anch’esso di rilevanza generale e cioè come proteggere la superficie esterna di un paramento murario la cui superficie interna sia dipinta.

Nel caso in questione si trattava della facciata della Cappella, costruita – come il resto dell’edificio – con mattoni in terracotta.

La decorazione pittorica della controfacciata, rappresentante il Giudizio Universale, era da sempre, soprattutto nella parte inferiore, la zona più deteriorata dell’intera decorazione di Giotto. La causa era da ricercare, con ogni plausibilità, nel venir meno di un elemento di protezione quale doveva essere il “portichetto” in facciata crollato nel 1817. Il portichetto non avrebbe potuto più essere ricostruito (anche ammesso che ci fosse rimasto qualcosa di più attendibile del disegno e della relativa incisione ottocentesca) ma, almeno in linea di principio, si sarebbe potuto ripristinare l’ intonaco  di cui furono rintracciate diverse tracce sia sotto gli archetti del coronamento della facciata, che all’interno del loggiato soprastante la sacrestia, proprio in corrispondenza della parete esterna sinistra della Cappella, e, infine, sulle cornici lapidee delle monofore.

Allo scopo di rintracciare eventuali riscontri a tale situazione furono effettuate ricerche su alcuni importanti edifici padovani trecenteschi in seguito alle quali risultò che tutti conservavano nelle zone meno accessibili frammenti di intonaco dipinto tanto consistenti da consentire, almeno in alcuni casi, la restituzione del partito decorativo originario.

Certo l’intento non avrebbe potuto mai essere quello di ripristinare una qualsiasi decorazione, meno che mai quella documentata nella foto Naja del 1867, cioè 20 anni prima di venire rimossa quale esempio inaccettabile di “assurdo intonaco barocco” (secondo la lapidaria definizione del Consiglio Comunale riunito a decidere della sorte di quell’apparato): e, anche in questo caso, a prescindere dal fatto che quella immagine possiede uno scarsissimo valore documentario.

Prevalse invece l’opzione di privilegiare l’aspetto ormai “storicizzato” della facciata, anche se esso risaliva a solo un secolo prima e anche se era il risultato di una concezione oggettivamente aberrante, supportata (allora e purtroppo anche in seguito) da una scarsa coscienza storica, spesso non disgiunta da una sopravvalutazione (anch’essa storicamente distorta) dell’uso, molto limitato e piuttosto recente, che dei materiali in vista è stato fatto nell’architettura storica.

Il risultato ottenuto con l’impiego di un protettivo sintetico già ampiamente sperimentato e comunque sottoposto a nuovi, appositi controlli strumentali per verificarne nel tempo l’efficacia e la compatibilità con i materiali costitutivi dell’edificio non fa rimpiangere – sotto l’aspetto conservativo – la soluzione scartata ed ha inoltre il vantaggio di consentire in qualsiasi momento la messa in opera della soluzione alternativa senza dovere rimuovere totalmente o parzialmente l’intervento ( l’intonacatura) già realizzato.

Lo studio specifico di ogni soluzione ed il controllo strumentale nel tempo delle conseguenti realizzazioni costituisce del resto un’altra caratteristica fondamentale del modo di procedere seguito nella Cappella Scrovegni: non solo relativamente all’edificio ed all’ambiente ( basterà ricordare che prima di iniziare il cantiere è stato “monitorato” per un anno il funzionamento del CTA) ma anche alla decorazione pittorica.

Così mentre erano ancora in corso le prime campagne microclimatiche e di misurazione della qualità dell’aria allo scopo di controllare e approfondire i risultati ottenuti con le campagne del ’78-’79 venivano avviati i primi controlli sui campioni di prodotti inquinanti depositatisi sulla superficie pittorica, già oggetto di studio nel corso delle campagne prima citate, e si operavano i primi saggi di rimozione dei solfati.

Inoltre, fra il 1988 ed il 1991 venivano effettuati i cantieri di documentazione dello stato di conservazione dei dipinti murali della navata e di contestuale intervento conservativo d’urgenza, soprattutto in presenza di scarsa adesione della pellicola pittorica. Nel ’92 e nel ’93 gli interventi venivano estesi alle decorazioni del presbiterio e dell’abside, oltre che a quelle in sacrestia ed ai quasi ignoti affreschi cinquecenteschi dell’ex loggiato coperto soprastante. Nel ’97 venne effettuato l’intervento conservativo d’urgenza per la riadesione degli intonaci nella parete nord ovest, in seguito ai diffusi movimenti sismici la cui punta più alta fu quella che colpì l’Umbria e le Marche il 26 settembre di quell’anno.

Nel ‘94 il “lunettone” con la Missione dell’Annuncio a Maria venne scelto come “cantiere pilota” in quanto campione abbastanza rappresentativo dei problemi conservativi e di restauro rilevati nel corso dei saggi effettuati in varie parti del ciclo pittorico e su di esso fu messo in opera un intervento completo (una sorta di “prova generale”): dalle operazioni più di routine consistenti nella ricostituzione dell’adesione tra il supporto, gli strati preparatori e la pellicola pittorica e nella ricostituzione della coesione dei materiali costitutivi al loro interno, al trattamento dei chiodi impiegati a fine Ottocento per ancorare gli intonaci al supporto murario, alla rimozione di prodotti di deterioramento (solfati) e prodotti di restauro alterati (soprattutto le resine sintetiche), al trattamento delle lacune.

In tutti questi anni, e fino alla vigilia dell’inizio del cantiere sui dipinti murali, sono stati effettuati a cadenza quanto meno trimestrale saggi e controlli sia in laboratorio che sul campo per valutare nel tempo l’efficacia dei metodi e dei prodotti di intervento man mano messi a punto.

Solo l’essersi attenuti rigidamente ad una procedura che vede in sequenza progressiva studio propedeutico, verifica sperimentale, realizzazione, controllo nel tempo ha consentito di programmare esattamente durata ( 8 mesi, dal luglio 2001 al febbraio 2002) e costi ( 1.300.000 euro) del cantiere di conservazione e restauro della decorazione pittorica, nonostante le difficoltà derivanti dalla particolare situazione ambientale della Cappella  e dalla necessità di fare interagire tra di loro professionalità (storici dell’arte, architetti, restauratori, chimici, fisici, strutturisti, geologi, bilogi, illuminotecnici) , competenze ( la Cappella è di proprietà del Comune di Padova ma la tutela è dello Stato), responsabilità diverse e spesso portatrici di esigenze difficilmente compatibili ( la tutela burocratica delle Soprintendenze competenti per territorio di contro alla attenzione specifica alle condizioni reali di conservazione da parte di un organismo specialistico come l’ICR).

E certamente segno inequivocabile del riconoscimento dell’importanza dell’intera operazione come “operazione pilota” è il fatto che sia stato il Comune di Padova a chiedere al Ministero e in particolare all’ICR di continuare a collaborare per garantire il controllo e la manutenzione del ciclo giottesco restaurato, assicurando da parte sua lo stesso impegno per quanto attiene all’edificio ed all’ambiente. 

E così ogni anno, a novembre (cioè quando l’afflusso dei visitatori è meno intenso) , viene effettuato un intervento di controllo a tappeto da parte di restauratori delle condizioni del ciclo di Giotto nonché una ricognizione, anch’essa a tappeto, della stabilità dei pigmenti originari o di restauro mediante misure colorimetriche di campo, mentre continuano ad essere effettuati i monitoraggi in tempo reale delle condizioni termoigrometriche e della “qualità dell’aria” all’interno e all’esterno della Cappella - nella speranza che questo esempio contribuisca anche al consolidarsi di una prassi della prevenzione in quanto attività ordinaria di tutela, come auspicava già 60 anni fa Cesare Brandi (di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita) alla luce del concetto di “restauro preventivo” da lui creato e illustrato nel capitoletto finale della Teoria del restauro.

Naturalmente anche per questa attività di controllo ed eventuale manutenzione si sono dovute superare difficoltà enormi, consistenti soprattutto nella convinzione diffusa della impossibilità di attuarla seriamente in un ambiente come la Cappella (ma il discorso vale per la maggior parte degli edifici religiosi). 

La presenza alle pareti di suppellettili e arredi fissi (stalli lignei lungo tutto il perimetro dell’edificio, amboni marmorei, altari, etc.) nonché di manufatti artistici inamovibili (il monumento sepolcrale di Enrico Scrovegni), oltre alla ristrettezza degli spazi di manovra (nell’abside-presbiterio l’altare dista dagli stalli fissati alle pareti  meno di un metro) avrebbe infatti reso impossibile l’impiego di un elevatore elettrico, e, d’altra parte, né il pavimento ottocentesco della Cappella poggiante malamente sulla cripta  né, tanto meno, il pavimento “galleggiante” (costruito per coprire le condotte dell’impianto di ventilazione al centro della Cappella in modo da non intaccare il pavimento) sarebbero stati in grado di sopportare il peso (1400 kg) del più piccolo “ragno“ in possesso di un braccio snodabile capace di raggiungere tutte le superfici decorate della Cappella. Non essendo neppure il caso di pensare ad un ponteggio fisso (non solo per i costi e i tempi di montaggio e smontaggio, assolutamente sproporzionati rispetto ai 6 giorni occorrenti per la ricognizione, ma anche per i rischi di danneggiamenti legati comunque alla movimentazione di migliaia di elementi rigidi, quali tubi e giunti metallici, assi di legno, etc.) la partita era apparsa a lungo persa in partenza.

E invece la soluzione è stata trovata mediante la progettazione (sempre da parte ICR e di chi vi parla) di una sorta di “carro-ponte” in acciaio, smontabile, sul quale viene caricato il “ragno” e che scavalca il pavimento “galleggiante e scarica su una porzione di pavimento assai più vasta di quella effettivamente occupata il peso del “ragno” sovrastante. Muovendosi a spinta su apposite rotaie parallele alle pareti, partendo  dall’ingresso alla fine della navata o viceversa il restauratore e gli altri operatori possono raggiungere qualsiasi punto della controfacciata, delle pareti, della volta e del presbiterio.

                                                   Breve cronistoria

1978- 79    campagne di misura chimiche, fisiche e biologiche per scoprire cause e modalità del degrado dei dipinti murali (misurazioni della qualità dell’aria, del microclima, dei meccanismi di solfatazione dell’intonaco dipinto)

primi interventi di miglioramento delle condizioni ambientali (modifica lampade per illuminazione, schermatura delle finestre, abbattimento della polvere esterna alla Cappella

rifacimento del tetto, risanamento e coibentazione della facciata e delle altre cortine murarie esterne 

cantieri per la ricognizione sistematica e la documentazione dello stato di conservazione dei dipinti murali, per i conseguenti interventi conservativi d’urgenza, per la messa a punto sperimentale e di campo dei metodi e delle tecniche per la loro migliore conservazione (risanamento zone di solfatazione, rimozione prodotti inidonei impiegati nel restauro precedente, restituzione coesione intonaci dipinti)

nuove campagne di misura per definire meglio cause e meccanismi degli sbiancamenti, sollevamenti e polverizzazione della pellicola pittorica (identificazione degli inquinanti atmosferici, misure di scambi d’aria interno-esterno, temperatura e umidità superficiale dei dipinti) e per valutare gli effetti dei provvedimenti già messi in opera

indagini ed esperimenti per la messa in opera del Corpo Tecnologico Attrezzato (CTA)

installazione del CTA

2000-2001 controllo strumentale del funzionamento del CTA

interventi di conservazione e restauro dei dipinti murali e degli altri manufatti artistici della Cappella e, contestualmente, indagini scientifiche finalizzate alla caratterizzazione dei prodotti di degrado e alla individuazione dei materiali e delle tecniche di esecuzione dei dipinti

2002- …       monitoraggio in tempo reale dei parametri microclimatici, della qualità dell’aria, della temperatura e umidità superficiali e controllo annuale delle condizioni della decorazione pittorica mediante ricognizione sistematica diretta da parte di restauratori e misurazioni colorimetriche da parte di esperti scientifici

           

                                ************************************ 

La vicenda dell’Ultima Cena di Leonardo è, nella sostanza, del tutto analoga a quella di Giotto agli Scrovegni, anche se nel suo svolgimento assai più contorta, soprattutto per le pesanti interferenze esterne ai problemi più strettamente tecnici e per la carenza di una guida culturalmente aggiornata e dotata della necessaria esperienza.

In realtà nel lunghissimo percorso dell’intervento sul dipinto, di una lunghezza priva di giustificazioni plausibili, il primo decennio è caratterizzato da un procedere a tentoni, a cominciare dalla partenza, fatta con il piede sbagliato, dato che si comincia ad intervenire sul dipinto senza essersi preoccupati di controllare che l’ambiente fosse idoneo alla preservazione del manufatto.

Cosa ancora più grave in quanto era ben noto a tutti che, in seguito ai disastri procurati dalla guerra ed alla esposizione per parecchi mesi alla pioggia, alla neve e ad ogni tipo di intemperie,  le condizioni del dipinto erano enormemente peggiorate, tanto che a tutti parve quasi un miracolo che l’opera potesse tornare ad essere leggibile quando, finita la guerra e risolti i problemi di sopravvivenza delle persone, fu sottoposta ad intervento di conservazione e restauro sotto la responsabilità di Brandi e dell’Istituto centrale del restauro.

Purtroppo ai risultati spettacolari di un restauro del tutto tradizionale, cioè rivolto soltanto al recupero dei valori formali dell’opera, non aveva corrisposto ( e non certo per colpa del restauratore) una attenzione altrettanto precisa ai problemi più strettamente conservativi e, soprattutto, non aveva fatto seguito (nonostante le vive raccomandazioni di Brandi) una adeguata attenzione ai problemi del rapporto tra il manufatto e l’ambiente. 

Un rapporto da sempre insoddisfacente, se già a 15 anni di distanza dal completamento l’opera appariva quasi illeggibile e a distanza di mezzo secolo Giorgio Vasari poteva considerarla quasi perduta. La causa risiedeva – come è ben noto – nella tecnica, dal tutto anomala per un dipinto murale, impiegata da Leonardo ma, ancora di più, nella posizione infelice della parete sulla quale egli aveva dovuto dipingere, posta lì a separare il Refettorio dalla cucina.

Gli interventi di riparazione e restauro susseguitisi nei secoli e soprattutto dagli inizi del Settecento non avevano fatto che aggravare la situazione, anche se tra fine Ottocento e inizi del Novecento si era cominciato a capire sempre più chiaramente che non ci poteva essere nessuna efficace conservazione dell’opera se non fosse stato preso di petto il problema della inidoneità dell’ambiente.

Divenuto se mai ancora più urgente da quando ai tradizionali fattori di degrado se ne erano aggiunti due particolarmente allarmanti e del resto tipici dei nostri tempi: l’inquinamento e una fruizione di massa non regolata.

Ciononostante tra la fine degli Anni ’70 e gli inizi degli ‘80 si cominciò a lavorare sul dipinto senza essersi preoccupati di verificare in via propedeutica l’idoneità dell’ambiente  e questo per 10 lunghissimi anni; tra polemiche infinite, per lo più infondate, come quella che imputava all’attività di restauro il danneggiamento dell’opera non capendo o fingendo di non capire che quanto veniva rimosso (peraltro con finalità anche conservative, dato che in quel modo si alleggeriva lo strato superficiale dell’opera, che in realtà era diventato un vero e proprio crostone dei materiali più eterogenei) era il risultato dei vari interventi di “restauro” (in realtà ridipintura) susseguitisi nei secoli .

Solo nell’’88, in seguito all’incarico dato all’Istituto centrale del restauro di coordinare le attività delle due soprintendenze competenti (l’una per l’aspetto monumentale-ambientale e l’altra per  l’aspetto storico-artistico), la situazione conosce una radicale inversione di tendenza che consentirà di uscire dall’empasse che si era creata soprattutto per carenza di cultura conservativa e di ottenere risultati positivi nonostante i gravi scompensi causati dalla gestione precedente.

Vale la pena di evidenziare che motivo non ultimo del successo deve essere individuato nella preziosa esperienza che nel frattempo l’Istituto, ed in particolare lo scrivente, avevano avuto modo di farsi proprio occcupandosi della Cappella degli Scrovegni.

La profonda analogia prima rilevata si spiega, pertanto, come diretta derivazione, anche se poi, per motivi di tipo burocratico o comunque esterno, il momento finale e conclusivo del processo conservativo, cioè il vero e proprio restauro del dipinto, ha potuto avere luogo al Cenacolo (1999) prima che alla Cappella Scrovegni (2002).

Uno di questi motivi era costituito, senza dubbio, dalla assenza della necessità di costruire una protesi tecnologica, dato che quella funzione di “polmone” e di disimpegno funzionale nel caso del Cenacolo poteva essere bene assolta dagli ambienti contigui al Refettorio, compreso il braccio del Chiostro Grande.

Questa circostanza ha reso possibile un percorso unidirezionale, cioè senza ritorno all’indietro, ottenuto con un intervento minimo di suddivisione in due più piccoli dell’ambiente d’ingresso mediante la costruzione di un setto murario: partendo dall’ingresso-biglietteria, attraverso  il braccio del chiostro per poi ritrovarsi, uscendo dal Refettorio, nell’ambiente alle spalle della biglietteria e infine nel locale che dà all’esterno.

Non c’è stato neppure bisogno di un “pavimento galleggiante” perché gli impianti tecnologici hanno potuto essere inseriti all’interno delle strutture murarie, ed anche l’attività di controllo ed eventuale intervento conservativo d’urgenza è resa assai più facile dalla possibilità di servirsi di una sorta di trabattello semovente a propulsione e sollevamento elettrico, perché le pareti in seguito alla ricostruzione del dopoguerra sono sgombre e pertanto non serve, come invece agli Scrovegni, un mezzo d’accesso dotato di “sbraccio”.

E a chiusura di questo discorso una osservazione che serve da sola, credo di potere dire, a dare il senso e il valore, anche economico, di un’operazione come quella fin qui descritta: contro tutte le previsioni catastrofiste che hanno costantemente accompagnato la discussione su che cosa fare per rendere più protetti i 2 monumenti e che davano per sicuro un calo radicale, se non proprio un crollo, nel numero dei visitatori e pertanto una drastica diminuzione degli introiti, da quando è scattato il nuovo regime di fruizione quel numero è rispettivamente triplicato (Scrovegni) e duplicato (Cenacolo) – a ulteriore dimostrazione che le persone sono generalmente assai più intelligenti di quanto non pensino coloro che pretendono di indovinarne reazioni e comportamenti.                            

                                BIBLIOGRAFIA  SPECIFICA RECENTE

-    Il restauro della Cappella degli Scrovegni. Indagini, progetto, risultati (a cura di G. Basile), Milano, 2003

Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Materiali per la tecnica pittorica ( a cura di G. Basile), Roma, 2005

Leonardo, L’Ultima cena. Indagini, ricerche, restauro, ( a cura di G. Basile), Firenze, 2007

                                          DIDASCALIE

La facciata della Cappella Scrovegni a Padova nell’aspetto attuale

Introduzione nella Capppella del “ragno” compattato

Disposizione del “ragno” sul carroponte e sui 2 binari 

Veduta dell’interno della Cappella con il “ragno” in funzione (foto fish eye)

Misurazioni colorimetriche per scoprire eventuali variazioni cromatiche

Ispezione sistematica della superficie pittorica di Giotto da parte di restauratori

La chiesa e il convento (con il Refettorio) di S. Maria delle Grazie a Milano in una foto degli inizi del secolo scorso

L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci dopo il recente intervento di restauro

Illustrazione di uno dei danni più comuni prodotti involontariamente dai visitatori in assenza di adeguati provvedimenti (qui in mancanza di un tappeto antipolvere )

Percorso dei visitatori prima che venisse realizzato il nuovo progetto conservativo ambientale

Schema dei provvedimenti messi in opera per prevenire danni all’Ultima Cena

Veduta del sistema di setti trasparenti ad apertura sfalsata                                     

 

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