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La cappella e Enrico Scrovegni

Inserito in Cappella degli Scrovegni

Nell’anno del I Giubileo (1300) Enrico Scrovegni, uno degli uomini più ricchi del suo tempo e aspirante signore di Padova, acquista un’ampia area comprendente alcune case e i resti dell’anfiteatro romano (“Arena”) e vi fa edificare nell’arco di pochissimi anni un imponente palazzo ed una cappella con esso comunicante.

Nell’anno del I Giubileo (1300) Enrico Scrovegni, uno degli uomini più ricchi del suo tempo e aspirante signore di Padova, acquista un’ampia area comprendente alcune case e i resti dell’anfiteatro romano (“Arena”) e vi fa edificare nell’arco di pochissimi anni un imponente palazzo ed una cappella con esso comunicante.

La cappella, dedicata alla Vergine Annunziata, fu consacrata il 25 marzo 1305, festa dell’Annunciazione. La sua edificazione doveva servire ad alleviare le pene del padre, noto usuraio, e a dimostrare di essere personalmente immune da quel peccato (si fa infatti raffigurare da Giotto tra i “salvati”), oltre che ad ostentare pubblicamente lo status cui era pervenuto e le sue per niente segrete ambizioni.

Giotto era allora il pittore di maggior grido ed Enrico chiese a lui di raccontare in poco meno di 150 soggetti la Storia della Salvazione dell’uomo. 

Egli sovrappone all’edificio reale una finta architettura dipinta, che parte dallo zoccolo con i finti marmi e finte sculture allegoriche dei Vizi e delle Virtù e si apre, man mano che sale, in tante “finestre” dietro le quali stanno figure a mezzo busto, le scene della narrazione, i due squarci di cielo stellato, e a racchiudere tutto una sorta di involucro azzurro, che funge anche da quinta scenica e prospettica per ognuna delle “sacre rappresentazioni”.

Giotto realizza qui la più grande rivoluzione nella storia della pittura europea ricostituendo quel legame con la realtà che da quasi un millennio era  andato perduto.

Nella impossibilità di presentare, seppure in dimensioni ridotte, il ciclo di Giotto si è preferito metterne in evidenza alcuni degli aspetti o dei brani più interessanti utilizzando mezzi diversi: una copia ad affresco ridotta del Cristo del Giudizio “come doveva essere” in origine per la riproduzione dell’effetto di rispecchiamento dell’aureola; acquarelli del 1871 che copiano “in miniatura” le pareti dipinte da Giotto; gigantografie di riquadri particolarmente significativi.

La cappella

La Cappella così come è giunta fino a noi appare notevolmente diversa dal modello offerto da Enrico Scrovegni alla Madonna della Carità nella controfacciata : si è supposto a causa della protesta elevata, nel gennaio 1305, da parte dei confinanti Frati Eremitani contro l’arroganza del potentissimo vicino, che intendeva far passare per una cappella ad uso privato un edificio esteso, vanagloriosamente decorato e con un campanile che stava per innalzarsi oltre ogni tolleranza.

 Quali che siano stati i motivi che non hanno consentito di realizzare pienamente il progetto schematizzato nel modello è però possibile affermare che l’edificio attuale non è comunque quello su cui Giotto fu chiamato a dipingere, dato che almeno due corpi parrebbero risalire  ad epoca successiva: l’abside e la piccolissima sacrestia.

Sopra la sacrestia, che presenta una decorazione fitomorfa ed un “riquadro” con S. Elena, oltre alla nicchia per la statua orante di Enrico, si trova un piccolo vano decorato a monocromi cinquecenteschi, originariamente un loggiato che metteva in collegamento  la Cappella con il Palazzo successivamente tamponato.

Tutto il  complesso edilizio fatto edificare o riadattare da Enrico poggiava sui resti dell’anfiteatro romano (Arena) e – a giudicare da una stampa ottocentesca – la facciata rifletteva l’andamento curvo del manufatto sottostante. 

La costruzione è costituita di mattoni oggi in vista in tutti i paramenti esterni ma in origine o comunque in antico almeno la facciata era ricoperta da una decorazione murale rimossa inopportunamente nel 1885.

Sotto la Cappella si estende un vano seminterrato, ad accesso esterno, delle stesse dimensioni della navata soprastante, cosiddetto Cenobio, con pareti e volta decorate piuttosto dozzinalmente.

ENRICO  SCROVEGNI

La famiglia Scrovegni , nata praticamente dal nulla, si era affermata come una delle più ricche e potenti di Padova nel volgere di poche generazioni, grazie ad una organizzazione di tipo familiare compartecipativo sul modello delle “compagnie” o “banchi” toscani.

Ciò per merito particolarmente di Rinaldo (Reginaldo), padre di Enrico, che nell’arco di un trentennio (1260 – 1290) portò alle stelle la fortuna economica della famiglia proprio esercitando l’attività dell’usura, ma poi investendo il proprio capitale in affari di ogni tipo.

Non aveva trascurato neppure l’aspetto fondiario e quello immobiliare, che anzi a poco a poco erano divenute le attività dominanti tanto che Enrico potè pensare di far dimenticare le origini “peccaminose” della sua fortuna offrendo la Cappella alla Vergine e facendosi rappresentare nel Giudizio Universale dalla parte dei salvati dalle pene eterne dell’Inferno, tra le quali quella dell’usura.

Per la verità gli Scrovegni erano sempre stati legati all’autorità vescovile, e lo stesso Rinaldo fu agente del vescovo Giovanni Forzatè mentre Enrico poteva essere qualificato come familiaris noster da papa Benedetto XI (Niccolò Boccasini), evidentemente grazie ad una amichevole frequentazione quando da cardinale stava ancora a Treviso.

L’attività di prestito non fu mai completamente abbandonata, per cui se Rinaldo può annoverare tra i suoi debitori i da Camino signori di Treviso e il Comune di Vicenza Enrico può vantare crediti addirittura nei confronti di Venezia, come conferma la richiesta da lui fatta al doge di avere delle reliquie di S. Marco per la sua Cappella.

Anche la sua politica di ascesa sociale mediante imparentamenti con alcune tra le più influenti casate pare che possa essere riferita ad obblighi da queste contratti nei suoi confronti mediante prestiti di ingenti somme di denaro: Enrico sposò infatti prima Bartolomea sorella di Uberto il Grande da Carrara e poi Iacobina figlia di Giovanni d’Este (ed anzi pare che fosse anche vassallo degli Estensi).

Al momento della costruzione del Palazzo e della Cappella Enrico era giunto al massimo della sua fortuna, come dimostra anche l’investitura a cavaliere, da lui celebrata facendosi fare una statua sul cui piedistallo spicca a lettere cubitali il titolo di “milite dell’Arena”.

Poi però, dopo alterne vicende nella lotta per la supremazia politica nella città anche in collegamento con potentati esterni (come era allora non raro),  viene costretto a cedere ai da Carrara, rifugiandosi in esilio a Venezia.

Non dovette trattarsi di un esilio particolarmente severo se egli potè continuare a gestire sostanzialmente gli affari suoi e della sua famiglia ( nel senso di larga parentela di sangue), in gran parte rimasta a Padova.

Ciononostante non gli riesce di capovolgere la fortuna e muore esule a Venezia nel 1336.

 

Il restauro della cappella degli Scrovegni

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