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Benvenute e benvenuti.

Giuseppe Basile ha effettuato la Direzione lavori, il coordinamento e la supervisione dei più importanti interventi di conservazione e restauro per conto dell'Istituto Centrale del Restauro del Ministero dei Beni Culturali.

La storia conservativa delle opere di Antonello, l'intervento attuale, le ricerche storiche e le indagini scientifiche

Inserito in Antonello da Messina

La storia conservativa delle opere di Antonello, l'intervento attuale, le ricerche storiche e le indagini scientifiche.

I PRECEDENTI

La storia conservativa delle opere di Antonello è abbastanza particolare.

Alcune infatti  (per esempio la Pietà del Museo Nazionale del Prado a Madrid) sono conservate perfettamente, cosa molto rara trattandosi di manufatti sui quali sono trascorsi tanti secoli, mentre altre (come la Pietà con tre Angeli del Museo Correr a Venezia o la Pala di San Cassiano al Kunsthistorisches Museum di Vienna) sono giunte fino a noi in condizioni pietose.

L’Annunciazione appartiene - purtroppo - a questo secondo gruppo.

Non conosciamo con certezza le cause del profondo degrado, che – come avviene generalmente – dovettero essere di diversa natura.

A coloro che se ne occuparono per primi, comunque, parve di potere individuare la causa principale di quel massiccio deterioramento nell’umidità alla quale l’opera era  esposta quando stava nella Chiesa della Santissima Annunziata di Palazzolo Acreide 

L’ipotesi è del tutto credibile dato che si tratta di una situazione comunissima a tanti dipinti su tavola (cioè che hanno il supporto in legno) quando si trovano addossati ad una parete e non sono oggetto di regolare controllo  da parte di persone del mestiere: cosa che accadeva solitamente nei grandi edifici sacri dotati di servizi permanenti di controllo e manutenzione (tipo le “Opere”, le “Maramme”, e simili), ma non nelle piccole chiese come la Parrocchiale di Palazzolo Acreide.

In effetti, a contatto con una parete esterna il supporto in legno può subire le conseguenze negative delle variazioni di umidità ambientale e delle infiltrazioni di pioggia dal tetto o direttamente dalla parete, se questa è scarsamente impermeabile. 

Se tale situazione si ripete parecchie volte senza che il dipinto venga portato via o almeno allontanato dalla parete, l’umidità finirà con il rendere fradicio il legno e col fare rigonfiare i materiali ( di solito gesso e colla animale) che costituiscono lo strato intermedio (preparazione) che collega gli strati pittorici al supporto facendo così perdere loro la capacità adesiva o, quanto meno, indebolendola.

Se questo processo di deterioramento causato dall’umidità non si è spinto troppo avanti si potrà ripristinare, almeno parzialmente, la consistenza del supporto e l’adesione tra quest’ultimo e lo strato preparatorio e quindi, in definitiva,  il complesso “supporto-preparazione-strati pittorici”, da cui è costituito il manufatto, sarà ancora in grado di reggere: in caso contrario si sarà costretti a ricorrere ad una operazione decisamente traumatica, qual è di fatto il cosiddetto “trasporto”.

Questa operazione consiste nel “trasferimento” degli strati pittorici dal supporto originario ad  un altro in materiale diverso, tradizionalmente tela.

Per farlo, bisogna preventivamente liberare gli strati di pittura dallo strato intermedio di preparazione e dal supporto, cosa che però, per quanto il legno possa essere diventato fradicio, non può essere effettuata con facilità : al contrario, l’operazione di rimozione è lunga, complessa e dagli esiti non scontati, dato che consiste nel  progressivo assottigliamento del legno intervenendo dal retro mediante scalpelli curvi e altri ferri da falegname, fino a raggiungere la faccia posteriore degli strati pittorici e, pertanto, finendo con il coinvolgere nella distruzione anche la preparazione. 1

Come si vede, una operazione ad altissimo rischio, cui si deve ricorrere solo in assenza di qualsiasi alternativa e sapendo che qualcosa andrà comunque perduto: ed è quello che è successo alla Annunciazione.  

Subito dopo essere stata riconosciuta come opera di Antonello e acquistata (1907) dallo Stato 2 (’87, 18), l’opera era stata inviata (1914) a Milano, nel laboratorio del più importante restauratore italiano del tempo, Luigi Cavenaghi, che però – secondo una prassi allora generalizzata (il che non vuol dire che fosse sbagliata) – ne aveva affidato il “trasporto” ai fratelli Giuseppe e Francesco Annoni, specializzati appunto in quel tipo di operazione.

Non c’è da dubitare, pertanto, che l’intervento sia stato eseguito a regola d’arte, ma, ciononostante, ne rimangono sull’opera segni indelebili, come, in particolare, alcuni sottilissimi frammenti della faccia anteriore del legno del supporto e, soprattutto, quella sorta di “pelle di coccodrillo” che caratterizza la superficie pittorica 3 e che – a parte tutto - rende oltremodo problematica la illuminazione dell’opera. 

Inoltre – ed è l’aspetto che qui più ci interessa – le parti risultate mancanti (lacune) a causa di vecchi danni o proprio in conseguenza dell’operazione di “trasporto”, erano talmente numerose che perfino un pittore-restauratore come il Cavenaghi, abilissimo nel rifare le parti non più esistenti, dovette limitarsi a ridipingere le lacune della parte alta del dipinto e quelle che, in basso, servivano a restituire all’opera una configurazione  geometrica solida in stretta connessione con il fulcro compositivo della scena, cioè la colonna di sinistra, lasciando però in vista le numerose lacune esistenti sulle zone inferiori sinistra e destra del quadro. 4 (’87, 38)

Che il Cavenaghi abbia potuto “ripristinare” con tanta disinvoltura zone di pittura così significative non deve meravigliare, perché bisogna ricordarsi che, ancora in quegli anni, vigeva un atteggiamento che da lì a poco sarebbe stato ritenuto non rispettoso delle opere ma che allora (e, per la verità, anche in seguito, quanto meno per le opere di proprietà privata) rispecchiava il gusto di un mercato antiquariale ricco  ma poco raffinato e, in ogni caso, propenso a privilegiare l’integrità materiale del dipinto vista come elemento decisivo per mantenerne alto il valore monetario.

Ad esigenze più vicine a quelle attuali si propone invece di risp ondere l’intervento che, a distanza di poco più di 20 anni, verrà effettuato prima presso il Gabinetto di restauro dei dipinti degli Uffizi a Firenze (1936-39) e, in un secondo momento, presso il neo costituito Istituto Centrale del Restauro (ICR) a Roma (1942).

Per la verità il movente primario dell’intervento era costituito dalla necessità di ripristinare l’adesione della pellicola pittorica, che si era “sollevata” ( cioè staccata) in più punti dal nuovo supporto in tela, presumibilmente come conseguenza negativa dell’operazione di trasporto o a causa della inidoneità dell’ambiente di conservazione (il Museo Archeologico Nazionale di Siracusa) o, com’è più probabile, per l’una e l’altra causa messe insieme.

Ma anche sotto l’aspetto estetico la situazione non era più quella di prima, perché le zone ridipinte dal Cavenaghi col passare del tempo si erano alterate cromaticamente, penalizzando pesantemente la lettura e quindi la fruibilità del dipinto.

L’opera, per volontà del Ministero dell’Educazione Nazionale , venne affidata ad un restauratore ben noto, Augusto Vermehren, figlio d’arte ( il padre, Otto, era un restauratore tedesco trapiantato a Firenze), operante presso il Gabinetto degli Uffizi, allora il più importante centro pubblico di restauro in Italia assieme al Gabinetto di Pinacologia del Museo di Capodimonte a Napoli.

Data l’importanza dell’opera e la difficoltà dell’intervento fu istituita ( come allora e fino a non molti anni fa era buona prassi) una Commissione di esperti con il compito di guidare e controllare il restauratore nelle scelte più propriamente critiche, cioè nell’individuare se e cosa eliminare dei “completamenti” del precedente restauro e come “risarcire” le lacune che di conseguenza si sarebbero venute a creare.

La Commissione decise che dovessero essere rimosse quasi del tutto le ridipinture del Cavenaghi (ritenute a ragione, come si è già detto, poco rispettose del testo pittorico originale) e che fossero sperimentate nuove tecniche nel trattamento delle lacune.

Ma, dato che i risultati della sperimentazione apparivano insoddisfacenti ed era venuta a crearsi una situazione di stallo, per intervento diretto del Ministro dell’Educazione Nazionale l’opera, agli inizi del 1942,  venne trasferita all’Istituto centrale del restauro (ICR), istituto creato per unificare i metodi di restauro, allora molto disomogenei, vigenti nel nostro Paese ma anche, appunto, per definire  metodi e tecniche innovative sia a livello di interventi conservativi che di restauro.

L’ICR  però, per quanto fondato nel 1939, aveva potuto cominciare a  funzionare solo da poco, dal 18 ottobre 1941 e, per di più, in un periodo assai difficile, quando già cominciavano a farsi sentire pesantemente le conseguenze della guerra in corso.

Per questo motivo il direttore, Cesare Brandi, dopo avere sperimentato un paio di soluzioni del tutto innovative ed in particolare quello che potremmo chiamare “effetto parabrezza” (la lacuna vista come dietro un vetro “appannato”), e però ritenendo il risultato non ancora soddisfacente, decise che, per allora, la cosa migliore era quella di lasciare le lacune in vista, limitandosi ad “accordare” la tela del supporto laddove era rimasta in vista con il colore caldo della preparazione data dal Cavenaghi. 5 (’87,31)

A novembre dello stesso anno l’opera, assieme ad altre, venne esposta nella “Sala delle mostre” dell’Istituto (costituendo così il primo esempio in assoluto di opera esposta in corso di restauro e per giunta nella prima mostra, di cui si abbia notizia, di opere d’arte restaurate), accompagnata da un cataloghino essenziale e poverissimo  in cui Brandi esplicita i motivi di quella soluzione, ribadendone la provvisorietà. 6 

Inspiegabilmente, e sebbene egli ci fosse tornato su 20 anni dopo nella sua notissima e diffusissima Teoria del restauro, 7 quell’intervento è stato considerato ( purtroppo anche in occasione della recente mostra di Antonello a Roma) come “il primo esempio del metodo di reintegrazione delle lacune da parte dell’ICR”. 

Brandi e l’Istituto,  in realtà, poterono affrontare seriamente il problema solo dopo la fine della guerra per rispondere alla necessità di restituire leggibilità ad alcuni importanti cicli di dipinti murali (come quello di Andrea Mantegna nella Cappella Ovetari a Padova o di Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta della Chiesa viterbese di S. Maria della Verità ), ridotti in frammenti dalle bombe. 8-9

Fu allora messa a punto in particolare una delle possibili realizzazioni tecniche del fondamentale principio  brandiano della restituzione potenziale del testo pittorico originario mediante la reintegrazione delle lacune, cioè la tecnica del tratteggio (nel gergo dei restauratori rigatino), che consisteva in una serie di tratti ad acquarello (per garantirne la reversibilità) sottili, paralleli, verticali, in grado di ricostituire il tessuto pittorico non più esistente ma conservando da vicino una netta distinguibilità. 10-12 (figg. 13, 17,18, a p. 73-74)

Questa tecnica, però, può essere usata solo  in presenza di lacune “reintegrabili”, cioè tali che il completamento del tessuto pittorico può avvenire tramite semplice sviluppo  degli elementi figurativi residui.

In caso contrario, bisogna ricorrere all’altra delle 2 tecniche messe a punto da Brandi e dai restauratori dell’Istituto, cioè all’abbassamento ottico-tonale della superficie delle lacune (sia al livello del supporto che della preparazione o degli strati pittorici più profondi), consistente nello scurimento della stessa in modo da farla retrocedere (“abbassarla”) otticamente, se possibile fino a farla coincidere con il fondo,in modo da consentire così  alla immagine residua dell’opera di “riemergere” e quindi tornare leggibile nonostante la perdita parziale della integrità materica, mancanza che però  (e questo è molto interessante) continua ad essere contestualmente percepibile. 13-14 (figg. 34-35 a p. 77)

Si tratta, evidentemente, di una soluzione solo in apparenza simile alla tradizionale reintegrazione a neutro (basata invece sulla evidenziazione della lacuna mediante un trattamento a tinta unita ) sostanzialmente utilizzata nell’intervento del ’42.   

Comunque sia, da allora in poi l’opera, appunto in quanto presunto “incunabolo” del metodo ICR, è stata considerata come un feticcio intoccabile, tanto che quando, a metà degli Anni ’80, si renderà ancora una volta necessario un intervento  a carattere conservativo ( per il ripristino dell’adesione tra pellicola pittorica e supporto), il restauratore Ernesto Geraci interverrà sulle lacune riprendendo in sostanza la “logica” del trattamento del ’42, 15 (’87,33) con in più lo scrupolo di lasciare in vista, quali “testimoni” di quell’intervento, dei frammenti di legno del supporto originario inglobati nella superficie pittorica in occasione del “trasporto” dei fratelli Annoni. 16 (fig. 10, p.72)

L’INTERVENTO ATTUALE

Del resto, nonostante l’ICR avesse dato ripetuti segni di disponibilità a completare il lavoro di restituzione dell’unità potenziale del testo pittorico originario alla luce di un metodo che ormai si era andato affermando in tutto il mondo, non si era mai avuto, da parte dei responsabili della tutela dell’opera, alcun riscontro concreto.

Una situazione che, oggettivamente, finiva per rendere un cattivo servizio sia a Brandi e all’ICR che, quel che più conta, alla fruibilità dell’opera. 

Sicchè, avvicinandosi i 100 anni dalla nascita del Maestro (1906), era apparso doveroso riprendere in mano il problema e portarlo a idonea soluzione.

Un sostegno indiretto e inaspettato veniva nel frattempo dalla mostra monografica delle opere di Antonello alle Scuderie del Quirinale  (marzo - giugno 2006): intendo dire che il fatto che per l’occasione il dipinto sarebbe dovuto venire a Roma rendeva (oggettivamente  ma anche psicologicamente) più facilmente realizzabile l’intervento da parte dell’ICR e questo servì a confermare nella sua presa di posizione favorevole il direttore del Museo Bellomo, Vera Greco, conscia del fatto che la “ricostruzione virtuale” da lei autonomamente promossa e già in corso di elaborazione all’Università di Messina da parte degli architetti Francesco Galletta e Francesco Sondrio ( e che sarebbe stata presentata in occasione del convegno del 19 maggio 2006 , di cui più avanti) non avrebbe potuto surrogare una “restituzione” reale.        

Chi ha consuetudine con la quotidiana attività di restauro sa che, in obbedienza al principio fondamentale che vieta assolutamente qualsiasi tipo di sperimentazione nel “corpo vivo” dell’opera, è normale il ricorso alla “copia”, cioè ad un equivalente il più fedele possibile dell’originale sul quale potere lavorare senza i rischi connessi a qualsiasi intervento ( compresi quelli “reversibili”, cioè asportabili senza danni, ma ovviamente soggetti – come ogni attività - ad errore umano), con l’ulteriore vantaggio di potere avere presenti contestualmente, e quindi confrontabili agevolmente, ipotesi alternative o proposte a diversi gradi di avanzamento.

Così fu fatto, per limitarmi ad un solo esempio, in occasione dell’intervento sulle decorazioni murali della Basilica Superiore di S. Francesco in Assisi allorquando si rese necessario controllare preventivamente l’effetto che avrebbe fatto sui visitatori la testa ricomposta di S. Rufino, non appena la si fosse potuta ricollocare sulla volta da cui era crollata a causa del sisma del 26 settembre 1997. 17-18 

Va da sé che la scelta deve essere il risultato di una valutazione critica e che questa, a sua volta, avrà tanto più valore quanto più sarà stata il frutto di un approfondito confronto pubblico tra veri specialisti.

A questo scopo, in collaborazione con le Scuderie del Quirinale e prima ancora che l’opera, allora in mostra, fosse fatta arrivare in Istituto (ciò che di fatto sarebbe avvenuto solo un anno dopo), l’ICR volle organizzare un convegno con specialisti del restauro italiani e stranieri (provenienti da Dresda, Bruxelles, Londra, Parigi, New York, Torino, Firenze, Venezia, Messina, Siracusa), alcuni dei quali convenuti per riferire dei restauri da loro recentemente eseguiti - o ancora in corso - su opere di Antonello, ai quali sottoporre le tre soluzioni progressive ( da un’ipotesi minimale a quella caratterizzata dal massimo di compatibilità con l’autenticità dell’opera) 19 (figg. 1-9, p.70)che nel frattempo erano state elaborate dallo scrivente e dalle restauratrici che avevano lavorato precedentemente su altre opere di Antonello e che, pertanto, erano le più indicate ad occuparsi dell’ Annunciazione (Costanza Mora, Beatrice Provinciali, Albertina Soavi, con l’aiuto di Nico De Palo e Paola Minoja).

Gli specialisti presenti condivisero all’unanimità sia il metodo del procedere a tappe successive e progressive, sia la soluzione “massimale” da noi prospettata, ben capendo che essa rispondeva pienamente a due esigenze altrettanto vitali ma, almeno per chi non dispone della formazione e della esperienza dell’Istituto centrale del restauro, non conciliabili: voglio dire la restituzione all’opera della sua struttura formale originaria e il rispetto assoluto della autenticità della stessa nella sua residua consistenza fisica, pertanto solo sviluppando i suggerimenti ancora in essa contenuti, anche alla luce della massima tradizionale, ma non per questo meno vera, secondo la quale nel restauro  ( ma dovrebbe valere in ogni occasione) “meno si fa, meglio è”.

Questo riconoscimento costituiva, ovviamente, un segnale positivo, ma si trattava pur sempre di un punto di partenza: c’è una bella differenza tra una gigantografia del dipinto a grandezza naturale integrata ad acquarello dai restauratori dell’Istituto ( per non parlare della “ricostruzione virtuale” cui prima accennavo, interessante – a parte ogni altra considerazione di merito – perché è risultata sostanzialmente coincidere con la “restituzione prospettica” realizzata presso l’ICR quale struttura di riferimento portante in funzione della restituzione complessiva della struttura formale dell’opera) e il dipinto nella sua autentica, e pertanto incomparabilmente più complessa, realtà.

A cominciare dalle condizioni del supporto, che continuava a risentire pesantemente della situazione conseguente a quella sorta di “trapianto” costituito dal trasporto.

Il nuovo supporto in doppia tela è stato quindi sottoposto per diversi mesi ai più avanzati e complessi rilevamenti e misurazioni scientifiche, al fine di raccogliere dati oggettivi sulla capacità di continuare ad espletare adeguatamente la sua funzione.

A questo proposito, va ricordato che il supporto in legno non è “elastico” e che, pertanto, la tela del nuovo supporto deve essere tesa al massimo per cercare di riproporre per quanto possibile le caratteristiche del supporto originario. 

Col passare del tempo, però, essa (come è naturale) può perdere la sua elasticità (cioè può “allentarsi” più o meno ampiamente) e allora bisogna ritenderla. 

E’ necessario chiarire subito che questa operazione può essere effettuata solo se e nei limiti in cui non mette a rischio la pellicola pittorica e che, anche in caso di piena riuscita, da sola non è in grado di offrire una soluzione soddisfacente , ragione per cui deve essere accompagnata da interventi e provvedimenti conservativi permanenti.

Quanto all’Annunciazione, date le sue condizioni di estrema fragilità,  si è dovuto escludere sia l’eventualità di sostituire il supporto - intervento rischiosissimo sempre ma ancora più in questo caso – che quella di rinforzarlo, perché sia l’una che l’altra operazione avrebbero comunque sottoposto il dipinto ad uno stress cui difficilmente avrebbe potuto resistere: e invece, proprio grazie ai risultati ottenuti con la raffinata diagnostica di cui si è detto, ci si è potuti limitare a proteggerne il retro mediante l’applicazione, a mezzo di viti, di 4 pannelli di balsa, rigidi ma leggeri e resistenti. 20 (fig.11, p. 89)

Ma, come si è già detto, un intervento del genere da solo non sarebbe stato sufficiente e pertanto si è reso necessario garantire al dipinto condizioni microclimatiche stabili (affinchè non si accelleri il processo di depolimerizzazione dei filati costituenti i tessuti di supporto) mediante una teca che consente il controllo dei valori di temperatura e umidità relativa. 21 

Inoltre, l’opera non dovrà essere sottoposta a nessun tipo di vibrazione o sollecitazione e pertanto non potrà essere spostata dal luogo di esposizione se non per inderogabili e impellenti motivi conservativi.

Risolto in questo modo innovativo il problema del supporto (da Carla Zaccheo con l’aiuto di Roberto Saccuman), sono state effettuate le operazioni necessarie a fare riaderire la pellicola pittorica e la preparazione al supporto ed è stata portata a termine la rimozione di ciò che era rimasto delle ridipinture del Cavenaghi.

Quanto alla reintegrazione delle lacune, l’intervento (come da noi previsto già al momento del Convegno) è risultato di estrema difficoltà e complessità, proprio per le condizioni disastrose del dipinto, che hanno costretto – per esempio – ad eseguire il riempimento mediante stucco delle lacune, che serve a preparare la messa in opera  delle reintegrazioni a tratteggio, non, come di regola, in piano ma seguendo le deformazioni della superficie del manufatto. 22 (figg. 28-31, p. 76)

Analoga, anzi spesso più grande, difficoltà ha incontrato - data la sua particolare sensibilità ai fattori luminosi - la tecnica dell’abbassamento ottico-tonale in corrispondenza delle lacune non reintegrabili.

Tutto ciò contribuisce a spiegare il mito della intoccabilità dell’opera in quanto “incunabolo” (presunto, come si è visto) dell’attività ICR  e, d’altro canto, fa capire quanto lungimirante fosse stata, a suo tempo, l’intuizione che solo un Istituto dotato della strumentazione culturale e della esperienza operativa interdisciplinare dell’ICR sarebbe stato in grado di risolvere correttamente il problema di restituire all’opera la sua struttura formale originaria ma nel più pieno rispetto della sua autenticità, quindi senza forzature o, peggio, completamenti più o meno di fantasia.

Nel caso dell’Annunciazione, dato che (fortunatamente) i valori cromatici originari non avevano subito rilevanti processi di alterazione, 23 (p.49)l’intervento di restituzione non poteva che essere finalizzato al recupero della struttura spaziale originaria, con la sua complessa impostazione prospettico-luminosa, la cui inadeguata leggibilità aveva penalizzato profondamente ( e da sempre) la novità e l’importanza dell’opera. 24  

Il “segreto”, in questo come in altri casi analoghi, consiste tutto nel non fare più di quanto sia necessario al raggiungimento dell’ obiettivo di restituire all’opera la sua unità potenziale e ciò richiede, da parte dell’équipe di restauro, capacità di comprensione dei valori che la caratterizzano e grande professionalità ed esperienza (oltre che, va da sé, adeguata “sapienza manuale” da parte del restauratore).

LE RICERCHE STORICHE E LE INDAGINI SCIENTIFICHE 

L’altro “segreto” riguarda la capacità di convogliare allo stesso scopo anche l’attività diagnostica, cioè di indirizzare in maniera mirata le indagini alla soluzione di problemi conservativi, di contro alla prassi più diffusa che preferisce concentrare l’interesse sugli aspetti conoscitivi del manufatto (essenzialmente identificazione dei materiali costitutivi, in particolare degli strati pittorici, nonché “rivelazione” di quegli elementi non visibili ad occhio nudo quali il disegno preparatorio o eventuali modifiche dell’immagine in corso d’opera da parte dell’artista o successivamente da parte di artisti-restauratori).

Non che le informazioni che si possono ottenere tramite la cosiddetta “diagnostica artistica” siano prive di interesse anche ai fini conservativi, tanto più che i risultati di una data metodologia diagnostica possono servire, generalmente, sia per conoscere  i caratteri costitutivi del manufatto che per determinarne lo stato di conservazione.

Il problema diventa allora quello di sapere definire il preminente interesse e, a livello operativo, quello della capacità di individuare quali metodiche scientifiche mettere in opera, in quale sequenza, con quali incroci e, inoltre, con quali interrelazioni appunto interdisciplinari con le altre professionalità coinvolte nell’operazione (in particolare storici e restauratori), ciò che comporta peraltro anche una abitudine a questo tipo di coordinamento che non può essere in nessun modo surrogata. 

Anche nel caso della Annunciazione, pertanto, si è provveduto ad attivare una ricerca storico-archivistica sulle vicende conservative dell’opera già prima del suo ultimo approdo in Istituto, mentre invece si è dovuto – ovviamente – attenderne l’arrivo prima di poterla sottomettere alle indagini, esami ed analisi scientifiche di cui, una volta ricoverata in laboratorio, è stato possibile constatare la necessità .

I risultati delle ricerche storico-archivistiche, condotte da uno specializzando in storia dell’arte dell’Università di Roma La Sapienza, Giovanni Cacioppo, hanno consentito di ricostruire in maniera abbastanza esaustiva la storia del dipinto sotto l’aspetto conservativo, in assenza della quale anche le più sofisticate indagini scientifiche rischiano di non potere rendere al meglio delle loro potenzialità.  

Come si è accennato prima, il nucleo più consistente e impegnativo di queste aveva lo scopo di indagare e documentare in termini oggettivi le reali condizioni delle due tele e del  telaio impiegati dai “trasponitori” per dare  un nuovo supporto al dipinto.

Sono state pertanto eseguite svariate misure reologiche, ed in particolare indagini meccaniche e ambientali mediante scanner laser 3D; 25-26 (fig.7 a p. 92 e fig. 8 a p. 93)) Misura del campo di spostamenti mediante metodo della Proiezione di Frange e del Phaseshift; 27 (p. 102) Misura del campo di deformazione tramite Speckle Image Correlation e Simulazione numerica mediante elementi finiti. 28 (p. 100-101) 

Il resto delle indagini è stato invece rivolto alla caratterizzazione dei materiali costitutivi del manufatto inteso nel suo complesso (supporto, strati preparatori, strati pittorici, strati protettivi) e alla definizione del loro stato di conservazione.

 Si è potuto così assodare che: il supporto è costituito da una tela di cotone e una di lino tenute assieme da una colla vegetale (osservazioni microscopiche e conseguenti confronti “modellari”); il telaio è in legno di abete ( esame dendrologico); lo strato preparatorio è costituito da colla animale e gesso (analisi EDXRF); i pigmenti azzurri sono costituiti da lapislazzuli, quelli rossi da cinabro o da lacca, quelli verdi da malachite o da resinato di rame, i gialli generalmente da ocre, talora da giallo di stagno e piombo, i bianchi da biacca (analisi spettrocolorimetriche e EDXRF).

Si è potuto inoltre verificare che per la doratura sono state impiegate foglie d’oro e che il legante della pittura è costituito da un miscuglio di olio siccativo e tempera.

Infine, l’utilizzazione di indagini riflettografiche nell’Infrarosso, 29 (fig.3, p. 118) di Raggi X, 30 (fig. 3, p. 108) della fotografia IR in falsi colori, di Fluorescenza agli UV hanno consentito – per quanto possibile, date le condizioni di profonda usura degli strati pittorici – di rivelare interessanti segni dei procedimenti tecnici impiegati dall’artista (in particolare, le incisioni e il disegno preparatorio).   

 

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