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Benvenute e benvenuti.

Giuseppe Basile ha effettuato la Direzione lavori, il coordinamento e la supervisione dei più importanti interventi di conservazione e restauro per conto dell'Istituto Centrale del Restauro del Ministero dei Beni Culturali.

PER LA TECNICA DI GIOTTO AGLI SCROVEGNI. Scoperte e conferme

Inserito in Cappella degli Scrovegni

A giudicare dalla quantità sempre più massiccia di iniziative volte a studiare la tecnica di artisti grandi e meno grandi si direbbe che siamo in presenza di una svolta se non storica sicuramente radicale, se solo si pensa che, non più di 13 anni fa, poteva suscitare grande emozione presso un pubblico di specialisti in storia dell’arte la notizia che il ciclo aretino di Piero della Francesca presentava diverse zone non dipinte a fresco (anzi, come allora si diceva, “ad affresco”).

 

A giudicare dalla quantità sempre più massiccia di iniziative volte a studiare la tecnica di artisti grandi e meno grandi si direbbe che siamo in presenza di una svolta se non storica sicuramente radicale, se solo si pensa che, non più di 13 anni fa, poteva suscitare grande emozione presso un pubblico di specialisti in storia dell’arte la notizia che il ciclo aretino di Piero della Francesca presentava diverse zone non dipinte a fresco (anzi, come allora si diceva, “ad affresco”).

Certo bisogna non dimenticare che la conoscenza degli aspetti materiali dei processi produttivi dei manufatti artistici, in un periodo in cui veniva privilegiata, nell’opera d’arte, la capacità di trasmettere messaggi, era talmente approssimativa e astratta che  il termine di “affresco” veniva applicato indifferentemente ad ogni tipo di pittura su muro. 

Di conseguenza, tutto l’interesse era rivolto alla individuazione della cd “tavolozza” dell’artista, cioè alla identificazione dei pigmenti, con risultati informativi generalmente piuttosto magri, dato che almeno per tutto il periodo preindustriale il numero dei pigmenti usati era ridottissimo e con incrementi nel tempo assolutamente modesti. 

Come sempre in casi del genere, chi si provava a colmare il vuoto erano coloro che per mestiere avevano rapporti diretti e continuativi con la fisicità delle opere e che pertanto erano convinti di potere distinguere ad occhio, basandosi sulla loro esperienza, i diversi tipi di tecnica di pittura murale, non andando però generalmente oltre l’individuazione dell’affresco e della tempera e limitandosi nei casi più complessi ad utilizzare definizioni di comodo quali mezzofresco o mezzosecco, in realtà  prive di vero contenuto tecnico.

Si trattava per lo più di conoscenze desunte dalla pratica più recente, quella appresa nelle Accademie o nelle botteghe tramite i manuali di tecnica pittorica che nell’Ottocento avevano avuto una diffusione enorme ma che, proprio per la loro funzione di insegnare a fare, non avevano una impostazione storica ma si ponevano come fuori dal tempo. In più, spesso l’individuazione era desunta dalla reazione che il dipinto mostrava ai diversi tipi di trattamento conservativo, nella convinzione tutta empirica che un affresco resiste ed invece una tempera o comunque una campitura a secco (o a mezzo) “smonta”, cioè tende a deteriorarsi.

La situazione anche in questo campo ha cominciato ad evolvere positivamente soltanto quando si è capito che era necessario da una parte studiare le fonti storiche, soprattutto i manuali di tecnica artistica, e dall’altra metterle a confronto con le risultanze delle indagini, analisi ed esami scientifici che cominciavano a fare la loro prima comparsa in un campo fino allora ignorato o quasi.

Tale esigenza era stata rilevata tra i primi dall’Istituto centrale del restauro già al momento della sua fondazione e contributi precoci sono rintracciabili già nel primo numero del Bollettino ICR . E quanto alla bontà del nuovo modo di procedere, basterà ricordare come Paolo Mora (Proposte sulla tecnica della pittura murale romana, Bollettino ICR, 1967, 63-84) dimostrò, con dati oggettivi alla mano, che gli intonaci pompeiani non era stati dipinti ad encausto ma, sulla scorta della descrizione di Vitruvio, secondo il più tipico (e solido) procedimento per dipingere a fresco su muro.

La messa a punto di sempre nuovi metodi (e apparecchiature) scientifici ha garantito a quella che ormai viene chiamata diagnostica artistica uno sviluppo tanto impetuoso e veloce da apparire perfino ipertrofico – quanto meno se lo si paragona alla scarsezza di risultati incisivi che nel frattempo sono stati conseguiti nel campo della diagnostica conservativa e, a maggior ragione, sotto l’aspetto della messa a punto di metodi e strumenti di intervento di provata efficacia.

Per la verità non siamo ancora al punto in cui con i metodi della diagnostica artistica si riesce a risolvere ogni problema, e tuttavia i progressi fatti negli anni più recenti per esempio nel riconoscimento dei leganti appaiono certamente notevolissimi.

Ed è proprio a livello di leganti che nello studio del ciclo Scrovegni si sono avuti i maggiori risultati, individuando nell’olio (aggiunto di materiale proteico) il medium impiegato nelle stesure a biacca e quindi deducendone, di fatto, la spiegazione del perchè essa non si è alterata.

L’impiego delle più recenti tecniche di indagine ha d’altra parte consentito di escludere la presenza di materiali organici nei finti marmi, come era stato ipotizzato da Leonetto Tintori proprio alla luce delle sue conoscenze della moderna tecnica del “marmorino” (o stucco romano o stucco veneziano) e di confermarne invece la rispondenza alla analoga tecnica ben conosciuta nella tradizione di Roma antica ma di cui non parrebbe essere rimasta traccia per parecchi secoli lungo il Medioevo se essa non compare nè nelle Storie francescane nè nella Cappella di S. Nicola ad Assisi nè al Santo a Padova ma bensì nella parte bassa della Cappella della Maddalena e poi in tutti gli altri cicli della Basilica Inferiore (è al momento difficile stabilire se si è trattato di una “scoperta” di Giotto o della persistenza a livello locale – veneziano? - della prassi operativa antica o non piuttosto, e sembrerebbe più verosimile, dell’interazione delle due possibilità).                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          

Se a ciò si aggiunge che Giotto, in questo ciclo, ricorre altresì – a seconda degli effetti che intende raggiungere – all’impiego della tempera ( sia a colla che ad uovo) e della tecnica a secco a calce, ne risulterà che qui sono rappresentate tutte le tecniche di pittura murale conosciute e che, di conseguenza, non si tratta di un ciclo a fresco, anche se è vero che proprio in quest’opera si affermano definitivamente le caratteristiche essenziali del procedimento pittorico su intonaco “fresco”.      Naturalmente non sfugge a chi scrive, nonostante l’interesse di informazioni come quelle riguardanti i modi in cui Giotto lavora ad intonaco risparmiato ovvero ottiene gli sfumati o i cangianti (e ancora una volta risulta confermato quanto Cennino Cennini prescriverà circa un secolo più tardi), che la messa a punto di queste informazioni rappresenta solo il primo momento in direzione di uno studio adeguato della tecnica dell’artista: appunto materiali, certo indispensabili ma pur sempre propedeutici alla individuazione dei modi tramite i quali essi diventano “forma”, anzi quella particolare forma in cui si concretizza la rappresentazione della realtà da parte di Giotto.

Questo mio chiarimento potrebbe apparire (e sarebbe) superfluo se non ci fossero segni sempre più chiari e inequivocabili della tendenza a ridurre la complessità del tema al mero rilevamento dei dati materici pur se desunti da esiti di indagini e misurazioni scientifiche (comunque di solito non automaticamente fruibili): tocca infatti ancora una volta ad una struttura pubblica, soprattutto se investita – come l’ICR – di poteri normativi nello specifico campo, richiamare l’attenzione sui rischi di certi atteggiamenti troppo semplificatori, nonchè (per altro verso) sui rischi derivanti da una non intransigente convinzione sulla intangibilità della integrità del manufatto artistico.

Proprio a dimostrazione di quella che è diventata ormai, e da tempo, una norma di comportamento indiscutibile non si troveranno, in questo volume, dati sugli incarnati dei diversi personaggi che animano la decorazione della Cappella perchè questo avrebbe richiesto dei prelievi di materiale pittorico originale.

Lo sviluppo delle tecniche di indagine non distruttive (PnD) consentirà certamente, a più o meno lunga scadenza, di superare questa empasse: non è forse vero che  la conoscenza è un processo senza fine? 

Giuseppe Basile

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